“Il Candelaio”

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“Il Candelaio” è da tutti considerato il capolavoro di Tato Russo. Riscritto completamente nel napoletano antico del 600, interpretato solo da maschi anche nei ruoli femminili. Spettacolo misterioso, magico, poetico e straziante. E’ da tutti considerato frutto d’una classe e di una misura ineguagliate di far teatro. E’ espressione d’una maturità artistica e d’una geniale inventiva ormai giunte al massimo vigore.

Trailerhttps://youtu.be/5LG_9FNlti0

Bellini editrice

IL TRAMONTO DEL RINASCIMENTO (di Franca Angelini)

ultimanotte candelaio

Che tipo di commedia è “il Candelaio”. Questa composizione abnorme, eccessiva, assolutamente originale nel quadro del teatro italiano della seconda metà del XVI secolo? E ancora: perché il filosofo, il “fastidito” solitario nel pensiero e nelle azioni, cerca il teatro per dire la sua pessimistica visione del mondo? Opera destinata alla lettura ma anche alla rappresentazione, il Candelaio dà forma visibile alle “idee” di Bruno. Alla sua ricerca dell’unità nel molteplice e alla necessità dunque di frantumare il reale. Di moltiplicare i punti di vista per restituire il senso, o il non senso, di un mondo dominato dal disordine e dal caso.

Opera anti-classicista.

Non è dunque improprio considerare questa commedia nella tendenza anti-classicista che domina il suo periodo. Per un impianto drammaturgico che anticipa il barocco, per la foga con cui le forme del passato, le regole del classicismo, i modelli, la prospettiva unica vengono demolite. Inoltre, per la sua furia dimostrativa. Il Candelaio rappresenta uno dei rari esempi di comico di idee, in cui si ride pensando, in cui le forme dialogica e monologica svolgono non solo ardui percorsi linguistici, ma la discorsività aderisce perfettamente a una visione unitaria nel molteplice.

La commedia.

La commedia risponde infatti a due complementari spinte: quella di distinguere e raggruppare i personaggi in una catalogazione enciclopedica del genere umano, confermata dalla contemporanea composizione del De Umbris Idearum (Parigi 1582) opera dedicata alla mnemotecnica. E quella di moltiplicare gli esempi, le parole, le situazioni, come se la ripetizione fosse operazione capace di riprodurre la casualità degli eventi e al tempo stesso di togliere senso al mondo rappresentato. La commedia si articola quindi intorno a tre nuclei, che sono tre vizi e tre follie del genere umano: la passione d’amore con l’inamorato Bonifacio, la passione dell’oro e la fede nella magia e nell’alchimia con l’avaro Bartolomeo, la cattiva cultura classica con il pedante Manfurio: “Però, per la cognizion distinta de’ suggetti, raggion dell’ordine ed evidenza dell’artificiosa testura, rapportiamo prima, da per lui, l’insipido amante, secondo il sordido avaro, terzo il goffo pedante, de’quali l’insipido non è senza goffaria e sordidezza, il sordido è parimente insipido e goffo, ed il goffo non è men sordido ed insipido che goffo”.

L'”artificiosa testura”.

Sono parole famose che introducono all’argomento della commedia, illustrato nei dettagli e scena per scena come si conviene a un’intenzione didattica rivolta al lettore, per metterlo in grado di dominare la folta trama o, brunianamente, l'”artificiosa testura”. In queste parole è già contenuta la novità e il significato della commedia; la scrittura come artificio moltiplicato virtualmente all’infinito, per creare esempi, ombre di idee distinte ma anche comunicanti in quel teatro di vizi che è il mondo e, in esso, il genere umano.

Questa struttura è ben nascosta nelle scene, 14 nel primo atto, 7 nel secondo, 13 nel terzo atto; una struttura che moltiplica l’esempio con la ripetizione, il che conduce a costruire una trama complessa, intorno ai tre nuclei dell’amore, del denaro, della falsa cultura, tutti e tre destinati alla beffa, alla punizione, allo sberleffo. Nel segno della moltiplicazione sono anche i vari prologhi che introducono alla commedia; ingressi ripetuti, visti da varie prospettive, ironici e autoironici.

Gli “abbeverati nel Fonte Caballino”.

Tale moltiplicazione consuma, brucia la convenzione ed elimina quel senso e quella funzione che il teatro classico aveva attribuito al prologo: invenzione di una figura che rappresenta l’autore , le sue idee e la sua drammaturgia, e che rappresenta la commedia, la sua trama e i suoi personaggi. Alla commedia si entra qui per varie porte, che ironicamente rimandano -quasi all’infinito- il momento vero e proprio della rappresentazione. Primo a parlare, rivolto ai poeti, è il libro, che chiede un inno, un’ode, un encomio, temendo la censura, o qualcosa di peggio, da parte dei pedanti; in una lingua quasi infantile, il Libro ironizza sulle dediche ma soprattutto sui poeti, gli “abbeverati nel Fonte Caballino”.

Il Libro.

Il Libro, che scompare al momento della rappresentazione è per Bruno fondamentale perché è qui che si elaborano e si esprimono le idee, ed è qui che le idee si tramandano. Pertanto è il lettore il protagonista, anche della dedica alla signora Morgana B., secondo ingresso al Candelaio. In tale dedica il discorso si fa più serio, perché quasi in un “teatro degli astri” sono qui evocati segni zodiacali e figure celesti in una contrapposizione tipicamente bruniana tra l’alto del cielo e basso dell’uomo.

Perché questo è uno dei sensi della commedia: una feroce visione del basso per alzare lo sguardo sull’infinito, una visione del molteplice per arrivare all’uno; in una commedia che, come il contemporaneo trattato, è “ombra di idee”. L’ultimo ingresso è offerto dall’argomento e ordine dell'”artificiosa testura”, da Bruno presentati e riassunti in modo molto dettagliato, nelle tre dimensioni dell’amore, dell’alchimia, della pedanteria che continuamente si intrecciano e interferiscono.

Nell’Antiprologo.

Il Candelaio manca dunque di quella prospettiva unica che legava i vari tipi a situazioni della commedia rinascimentale; è un polittico, articolato nella serie di scene che argomentano la varietà dei punti di vista, nel segno del raddoppiamento che presiede ai doppi sensi verbali e alle maschere e travestimenti dei personaggi. Radicalizzando il dubbio sull’identità, tale mondo diventa veramente un mondo di ombre. Un mondo che si rappresenta intero, nel segno però della negazione; un mondo-non mondo, esattamente come nell’Antiprologo il personaggio che parla nega l’argomento e ordine della commedia che l’ha preceduto e afferma che la trama è tanto intricata che l’ha dimenticata. Bruno dunque dice e disdice, fa e disfà, usa dissolvendo, bruciando nella negazione quanto ha costruito: “In conclusione – conclude l’Antiprologo – io voglio andar a farmi frate; e chi vuol far il prologo, sel faccia”.

Il Proprologo.

Ma subito dopo il Proprologo, negando la precedente negazione, annuncia il luogo della commedia, che sarà una Napoli realistica e insieme simbolica del caos del mondo. Il luogo scenico rimanda al vedere, al delirio della visione che nel Candelaio accompagna il delirio verbale. Come dice il pittore Gioan Bernardo: “La mia arte è dipingere e donare agli occhi de’mundani la imagine de Nostro Signore, di Nostra Madonna e d’altri Santi del Paradiso” (V,25). E’ probabile che questa idea appartenga a Giordano Bruno, ed è forse questa la risposta alla domanda iniziale sul perchè abbia scelto il teatro per rappresentare intero il mondo degli uomini, cioè il “gran teatro del mondo”.

DA NINCHI A TRIONFO PASSANDO PER RONCONI (di Anna Maria Sorbo)
Candelaio
Il Candelaio di Tato Russo

Agli inizi del secolo lo aveva rappresentato Annibale Ninchi. Dopo non inarrestabili riprese (tra cui una a Roma, nel 1940, ad opera di un gruppo di teatro universitario), è del 1964 la versione liberamente ridotta da Paolo Poli. O, piuttosto “uno spettacolo che s’intitola Il Candelaio di Giordano Bruno”, trasmutato – mercé la “variazione di temi, motivi, intrighi” e l’interpolazione di una “serie di episodi sciolti e sganciati” – in varietà facile e buffo (Francesco Bernardelli, La Stampa del 17 dicembre). Eppure, “come se Il Candelaio non fosse uno dei testi cinquecenteschi più scorbutici da portare sulla scena”, fa notare Sandro De Feo su L’Espresso del 25 ottobre 1964, insieme allo spettacolo di Poli appare un secondo allestimento, curato da Giuseppe Manini con i suoi giovani teatranti di Narni, che si segnala almeno per attenzione e rispetto filologici.

Lo “Scandalo”.

Quanto al primo, tutto sommato l’unico suo “torto” o meglio il “malinteso” o “disguido” è quello “d’essersi rivolto, lui così grazioso, elegante, attillato, ad un opera che è la meno graziosa, elegante, attillata che si possa immaginare”. Lo “scandalo”, insomma, se c’è, “è solo stilistico, per il divario che s’avverte tra il fondo barocco, turgido, violentemente meridionale della commedia del Bruno, non soltanto nel linguaggio, e la grazia fiorentina di Paolo Poli scremata di ogni acredine e di ogni turgore, spiega Giorgio Prosperi sul Tempo.

Luca Ronconi.

Si arriva all’anno per antonomasia della contestazione, e sulle scene giunge un Candelaio ben diverso, autorevolmente siglato da Luca Ronconi, che porta nell’universo di Bruno – sostituendo Roma a Napoli – un gruppo di ragazzi di vita pasoliniani, Ninetto Davoli in testa. Di fronte alle “variazioni cabarettistiche” di Poli che l’hanno preceduta, taglia corto Alberto Blandi su La Stampa, quella di Ronconi è “la prima messinscena che si conosca di questa commedia antica di quattro secoli, la prima che ha restituito il suo difficile linguaggio nella sua integrità”.

Giorgio Prosperi.

La “prima volta” che al Candelaio venga consegnata “la sua dimensione multipla e il suo tono inquietante” anche per Giorgio Prosperi, mentre Tian parla di “un registro di deformazione allucinante tirata fino allo spasimo” accenna con riserva all’indulgenza della mano allestitrice verso una “formula stilistica”, allo “stravolgimento e l’esasperazione dei toni di recitazione”, all’estraneità allo spettacolo dei ragazzi di vita.

Lele Luzzati.

All’alba degli anni ottanta, Aldo Trionfo – su un testo adattato in collaborazione con Alessandro Giupponi, con scene di Lele Luzzati, costumi di Santuzza Calì e il manipolo al completo del Teatro Stabile dell’Aquila – si impegna in una lettura del Candelaio che si direbbe “scientifica, testi filosofici a fronte”, purtuttavia il testo continua a non funzionare in palcoscenico e lo spettacolo risulta “non sempre chiaramente leggibile e talvolta perfino noioso” secondo Paolo Luchesini de La Nazione (10 dicembre 1981).

Guido Davico Bonino.

Non è così per Guido Davico Bonino, che sulle colonne de La Stampa segnala l’allestimento di Trionfo come “una perentoria metafora scenica e visuale”. G.A. Cibotto del Gazzettino, lo giudica “un meccanismo quasi perfetto”, condotto “sul filo di una serrata e controllata stilizzazione” col “tono d’una cerimonia quasi liturgica”, “esempio di come vada recuperato certo teatro antico dimenticato un po’ da tutti”. Una lezione di teatro, ovviamente per il pubblico superstite. Anche per Ubaldo Soddu del Messaggero, un “rigoroso e severo spettacolo che, ad onta della sua lunghezza, si fa seguire per la bravura degli interpreti”. Pure per Franco De Ciuceis del Mattino, mentre Giorgio Prosperi indica proprio nell’eccesso di intelligenza (forse sarebbe più giusto dire di ingegnosità intellettuale) il limite più vistoso di Aldo Trionfo”.

Londra.

Nel 1991 l’opera del filosofo nolano torna verso i suoi luoghi d’origine. La precedente edizione era andata in scena al Pit di Londra, secondo teatro della compagnia shakespeariana. Andò in prima assoluta inglese (malgrado i rapporti di Bruno – si legge su La Stampa che ne dà notizia nell’aprile 1986 – con sir Philip Sydney a Londra e forse con lo stesso Shakespeare).

Al Bellini di Napoli Tato Russo reinventa il Candelaio. Lo traduce prima  in italiano e poi in napoletano del cinquecento. Un “napoletano d’epoca di non facile comprensione ma di solida energia espressiva e di grande musicalità”. Questo per una “regia all’altezza del testo così brillantemente rinnovato”, scrive Masolino d’Amico su La Stampa.

Ugo Ronfani.

Identico il giudizio di Ugo Ronfani sul Giorno. Tato Russo “coglie bene lo spessore di questo testo della trasgressione”. Ne fa “uno spettacolo vibrante” – e di Enrico Fiore del Mattino. “Tato Russo sposta la commedia sul versante del bozzetto realistico” ma con “stilemi e situazioni intelligenti e affascinanti”.

In primis l’impianto scenografico “con quelle altissime pareti nere corrose da una lebbra crudele e inarrestabile”.

LA NAPOLI DI BRUNO E’ LA NOSTRA (di Luciano Giannini)

Candelaio di Tato RussoHo scelto due piani di lettura. Il primo è la trama, la storia. Il secondo coinvolge la scenografia e si manifesta simbolicamente in un palazzo. Un grande palazzo cinquecentesco che nel corso dello spettacolo si sfalda, regno onirico delle visioni di Bruno. Lì appariranno via via tutti i suoi fantasmi. La follia sessuale, i rabbiosi, complessi rapporti con la donna e la Chiesa, frammenti significativi della sua vita inquieta di esule insofferente… Lo chiamavano “il fastidito”, no? Un po’ come me… e infatti a riscriverlo per la scena mi ha mosso lo stesso fastidio e lo stesso disgusto che lui provò verso la società intollerabile dei suoi tempi.

Il “Fastidito”.

Anche forse la sua intemperanza, il suo gusto per la polemica. Il fascino di disputare di tutto e di tutti, e quella sua strana tentazione all’eversione sempre congiunta a una altissima religiosità. Quel clamoroso impasto di moralità e ragione e sragione e furori eroici. Di impaziente e insofferenze infinite, che sono ormai frutti di poco prezzo al mercatino del nostro tempo. E poi perché credo che il Candelaio sia la più straordinaria opera che la nostra civiltà teatrale abbia dedicato alle rappresentazioni di questa “nostra Napoli”. Che qui è la vera protagonista della commedia(…). Nel candelaio di Giordano Bruno, datato 1582, c’è tutta la Napoli di oggi con i suoi ladri, le puttane, i malfattori. Gli intellettuali venduti, la crudeltà, la meschinità dei rapporti. E’ sconvolgente: nulla è cambiato da allora.

Luciano Giannini: Tato, vediamo un po’ più a fondo questa rassomiglianza tra la Napoli di allora e quella di oggi

Tato Russo: Il Candelaio, dello scalmanato, eversivo, ribelle Giordano Bruno è una favola alla Blade Runner, un inferno napoletano. Nel mondo del Candelaio la legge non esiste, ma c’è la follia dei personaggi, ciascuno in cerca di qualcosa che non riuscirà mai ad ottenere. Contrapposto a essi c’è una gran ciurma di popolo che ha deciso di campare attraverso l’uso della delinquenza.

L.G.: La reazione è il disgusto definitivo per questa città? Protagonista, dunque, è l’illegalità?

T.R.: E la violenza. La follia della città. Napoli come New York e come tutte le grandi metropoli del mondo d’oggi. E la loro trasformazione nel finale in falsi sbirri, è un altro segno che avvicina quest’opera ai nostri tempi. Non accade forse lo stesso anche oggi?(…).

L.G.: Passiamo al linguaggio del Candelaio.

T.R.: Bruno getta anche nella lingua la propria violenza eversiva. Deforma la struttura toscana, allora imperante, con continui ricorsi ad aggettivi, barocchismi, frasi idiomatiche in dialetto napoletano. Io mi sono mosso in questo magma e da questo magma; ho ridotto il testo in italiano e poi l’ho riportato a quella che era la lingua che si parlava a Napoli nel Cinquecento.

(da il Mattino di Napoli, 18 ottobre 1991)

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