John Bossy

banner_monte

Ha detto recentemente Philippe Daverio che non c’è più alcuna autorità culturale che vigili sulle “fesserie” (eufemismo) che si pubblicano. In tal modo trovano risonanza (tra le pelli d’asino per tamburi) affermazioni e teorie che fino a non molto tempo fa si sarebbero guadagnate la sottolineatura in blu o in rosso nelle scuole elementari, e che talvolta disgraziatamente assurgono a capisaldi di pensiero dettando legge per decenni. Abbiamo pertanto ritenuto di segnalare con questa rubrica, aperta a tutti, le storture provenienti da “cervelli increspati” (definizione di Anacleto Verrecchia), che condizionano pesantemente il sapere. Il nostro non è un intento di censori o pedanti (sarebbe il colmo parlando del Bruno!) ma una rivisitazione bonaria e ironica per difendere il Bruno, che non può farlo, dagli “insulti” che ancora gli piovono addosso.
Nei casi più lievi ci limiteremo a fare come gli antichi spartani: esporremo sul Monte Taigeto i parti più debolucci, segnalando coloro che vagiscono ancora in età adulta, emettendo un suono fesso.
Nei più gravi, accompagneremo personalmente sin sul bordo della Rupe Tarpea coloro che, in buona o malafede, hanno danneggiato il Bruno, così come facevano gli antichi romani con i traditori. In entrambi i casi, i lettori saranno liberi di scegliere, attraverso un sondaggio, se assolvere, graziare permettendo al pupo di crescere, o dare, tutti insieme, una piccola spinta. Valens Acidalius

John Bossy

York, Inghilterra settentrionale. Proiettori illuminano i resti spettrali di un castello che si stagliano contro il cielo nero. Si ode il crócido di alcuni corvi che fuggono le tenebre incipienti. Dalle luci salgono vapori che si agitano nell’aria come fantasmi. Passi solitari echeggiano sul lastricato di un’antica stradina mentre, dal buio che avvolge le case in pietra, sembra emergere un oscuro figuro incappucciato; dal mantello aperto proviene un luccichio rivelando la presenza di una croce. All’improvviso, una mano impugna la croce e ne cava la lama terribile di uno stiletto! Un’apparizione, certo, ma in questa cittadina le gelide sere autunnali possono generare potenti fantasie. A York è nato, nel 1933, il docente di storia John Bossy che, nel suo libro Giordano Bruno e il mistero dell’ambasciata ° ha costruito una teoria che farebbe del Bruno nientemeno che una perfida spia, dalla risata sarcastica. Calandosi tra antiche carte ingiallite, emergenti da polverosi archivi, ha rinvenuto numerosi documenti sulle attività di spionaggio nel ‘500. Ma cerchiamo di fare un piccolo riassunto scusandoci per le inevitabili approssimazioni. Alla fine di marzo del 1583 Bruno si era recato dall’ambasciatore inglese a Parigi (aveva chiesto un visto, diremmo oggi) che ne aveva preavvisato l’arrivo al segretario e capo della sicurezza della Regina, Francis Walsingham, in termini non certo lusinghieri, presentandolo come «un professore di filosofia la cui religione non posso raccomandare». Era giunto a Londra ad aprile inoltrato, trovando alloggio nell’ambasciata di Francia grazie alle credenziali che Enrico III gli aveva concesso. Il periodo è tra i più intricati, per la lotta tra cattolici e riformati, i continui spostamenti di fronte e di alleanze, gli intrighi per il potere all’interno della Corte di Elisabetta I, sempre impegnata a tenere a bada i pretendenti. In questo guazzabuglio, Bossy ritiene di poter identificare l’autore di alcune informative di spionaggio in Giordano Bruno, che a Londra non aveva certo tenuto una condotta defilata, come ci si aspetterebbe da una spia, ma era riuscito ad agitare ancor più le acque intorno alla sua persona.

   Il professore, con la tesi Bruno=spia crea un fuoco d’artificio, in tutti i sensi, con botti e vampate che formano una Sinfonia fantastica in cui il direttore d’orchestra perde spesso di vista la partitura, con risultati paradossali. Ma lasciamo la parola all’inglese. Il 20 aprile 1583 arrivò sulla scrivania di Sir Francis Walsingham il primo di una serie di interessanti messaggi… da un certo Henry Fagot (pag.33). Altra lettera segue la settimana dopo ed il solerte professore, analizzando i testi, rileva che l’autore non era francese… penso che sia piuttosto facile dimostrare che Fagot era un italiano… cade in italianismi e l’unica altra lingua della quale dà prova di subire l’influenza è lo spagnolo (36). Afferma poi che il nostro uomo era un prete: in lettere successive lo troviamo mentre ascolta una confessione, discute con il successivo ambasciatore delle sue esperienze di sacerdote a Londra (37). Basterebbe questa osservazione per tagliare la testa al… prete, perché sappiamo che il Bruno, spretato da tempo (e la cosa era nota), non avrebbe potuto dir messa o confessare senza incorrere in gravi conseguenze; mentre sappiamo che all’Ambasciata francese, come del resto in quella spagnola, vi erano già dei religiosi per officiare; lo stesso Bossy ci informa (37) che in una lettera del Duca d’Angiò a Elisabetta, sicuramente non posteriore al 1582 (ben prima quindi dell’arrivo del Bruno), si parla di “un piccolo prete di Mauvissiere” (l’ambasciatore Castelnau). Ma troppa è la fregola dell’autore per la presunta scoperta di supposti altarini del Bruno per non seguitare a deliziarci con spericolate deduzioni.

   L’ambasciata francese assomigliava parecchio al nostro odierno parlamento, frequentata com’era da molti personaggi che facevano dell’intrigo la loro professione; tra i principali: William Fawler, scozzese, sedicente protestante ma al soldo dei francesi, William Herle, che lavorava per Castelnau, Francis Throckmorton, congiurato poi scoperto e decapitato dalla Regina, l’ambiguo Lord cattolico Henry Howard, molto inquietante già in effigie (a pag.145). Tra i residenti, il pretino e il segretario; afferma Bossy: non c’era dubbio che il segretario (Nicolas Leclerc seigneur de Courcelles) era diventato una talpa al servizio di Walsingham e Fagot poteva vantare il merito di averlo reclutato (39); secondo l’equazione Fagot=Bruno dobbiamo fare i complimenti al filosofo per il tempo brevissimo (pochi giorni) impiegato a inserirsi nell’ambiente e a reclutare spie, anche di rango. Il resto del personale dell’ambasciata non era da meno, quanto a intrallazzi, seppure dilettanteschi: secondo il Bossy, trafficavano in arredi sacri, libri e armi, il cantiniere, uno dei cuochi, lo spedizioniere e il portinaio. Ci viene il sospetto che anche i chierichetti, durante le messe, non si limitassero a stare ginocchioni ma comunicassero informazioni con i loro suffumigi, in stile pellerossa. In questo gioco di “chi spia chi” però è il Bruno, secondo il Bossy, a essere il migliore, per la sua funambolica duplicità e bravura; talmente bravo, osserviamo noi, che, alla fine della fiera, invece di ricavare soldi e onori dalla Regina, nel settembre 1585 viene imbarcato per scaduto gradimento insieme al Castelnau e rimandato senza troppi complimenti in Francia, dove avrebbe potuto correre il  rischio di essere decapitato.

Sul filo delle intricate vicende relative alla ambasciata, Bossy, ritenendo di avere il bandolo della matassa, si aggroviglia ancora di più: Il problema che sorge dai documenti (ndr: dalle informative del Fagot) consiste nel fatto che Fagot e Bruno scrivevano con due calligrafie completamente diverse (103), ma poiché Bruno scriveva in almeno tre differenti calligrafie non dobbiamo stupirci che quando scriveva sotto il nome di Fagot fosse diversa (105). Il numero delle calligrafie, che si moltiplicano, non gli pone problemi, anche quando si trova davanti ad una missiva diversa, scritta parte in francese e parte in italiano: Siccome abbiamo già cinque differenti calligrafie del Bruno, comprese le due del Fagot (notare la logica) e tutte abbastanza diverse, non sembrerà molto difficile ipotizzarne una sesta (108). Anche se deve ammettere che  i brani in italiano sono esecrabili e a giudicare dalle apparenze è inconcepibile siano stati scritti da un italiano… l’autore può quindi essere uno spagnolo (109) ciò lo porta a concludere che Fagot faceva ogni sforzo, a costo di cadere nel ridicolo, pur di dissimulare che la sua lingua madre era l’italiano (115).

Ma nel ridicolo ci casca a volte l’autore, come quando, parlando del mercoledì delle Ceneri, ha una visione in cui Bruno cosparse di cenere la fronte dei membri dell’assemblea e ricordò loro che erano polvere (134) o quando effettua voli a dir poco pindarici: E’ possibile, benché del tutto improbabile, che Bruno non conoscesse la differenza tra le dottrine di Lutero e Calvino; è però più probabile che ritenesse impossibile insegnarle in modo tale che le masse ignoranti potessero scorgervi una differenza (182); e aggiunge, diciamolo, onestamente: Arrivato a questo punto il lettore ha forse perso la pazienza (183), esattamente quello che è capitato a noi, che, parafrasandolo, osserviamo: é probabile, oltreché possibile, che l’autore qui batta i coperchi ed è improbabile, oltreché impossibile, che riesca a capirci qualcosa; come risulta dalla seguente affermazione: Tutto quello che Bruno scrisse di sé e quasi tutte le sue affermazioni autobiografiche, che sono state annotate, – ne sono quasi sicuro – devono essere considerate frutto di invenzione: sia i suoi scritti pubblicati che le sue apparizioni davanti agli inquisitori erano le rappresentazioni pubbliche, teatrali, di un personaggio nato dalla fantasia (169). Alla faccia dello Spampanato e di tutte le fonti storiche in generale.

Concludendo. L’unico elemento, secondo noi, che potrebbe avvicinare il Bruno al Fagot è l’ambivalenza della firma della spia: infatti compter fagots nel francese dell’epoca significava “contar frottole” e in inglese faggot (pronunzia fagot) “individuo spregevole”; la denominazione potrebbe essere stata appioppata al prete, alle cui messe presenziava, dallo stesso Bruno o dal suo amico John Florio.

John Bossy però qualche merito ce l’ha: ha individuato, riteniamo definitivamente, la collocazione dell’ambasciata in Salisbury Court; ha portato alla luce una interessante corrispondenza di spionaggio; non ha avuto una influenza nefasta come altri “esperti” del Bruno e risulta spesso divertente. Ci limitiamo pertanto a proporne l’esposizione alle raffiche di vento del Monte Taigeto, che gli rinfreschino le cellule grigie.

Ai lettori il giudizio finale.

° Garzanti Editore, 1992. A questa edizione si riferiscono le numerazioni delle pagine da cui sono tratte le citazioni riportate in corsivo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.