Giordano Bruno, tra Scienza e Magia

Conferenza di Guido del Giudice dal titolo: “Giordano Bruno, tra Scienza e Magia” che si è tenuta in ottobre presso la Sala Consiliare di Villaricca (Na)

“Il tempo tutto toglie e tutto dà”

soleva dire il Nolano, e neppure la damnatio memoriae, decretata dopo il rogo dalla Chiesa cattolica, è riuscita ad oscurare in eterno le geniali intuizioni del filosofo. A ricordarcelo è il noto studioso napoletano Guido del Giudice che, attraverso la rivisitazione delle opere di contenuto matematico e cosmologico, reclama, con argomenti forti e convincenti, il ruolo che a Bruno spetta di diritto nella storia del pensiero scientifico.

Guarda il video della conferenza: “Giordano Bruno, tra Scienza e Magia”

Scienza e Magia

Il Candelaio e le tre maschere di Napoli.

a cura di Don Sapatino.

Il Candelaio, l’unica commedia conosciuta di Giordano Bruno, e probabilmente anche l’unica scritta, fu pubblicata a Parigi nel 1582. Quindi l’anno successivo al suo arrivo nella capitale francese e, chissà, forse per dimostrare la sua capacità di mettere in scena un ‘pezzo teatrale’ valido tanto quanto il Ballet comique de la reine che era stato rappresentato con successo l’ottobre precedente, quando il Nolano era già a Parigi e del quale avrà quanto meno sentito parlare. Di certo, egli non avrà lasciato nulla di intentato per farsi riconoscere ed accettare presso la corte di Enrico III. Magari anche una commedia potrebbe essere stata considerata, dal filosofo, valida alla bisogna.

CandelaioDi certo la commedia rappresenta, in qualche modo, il biglietto da visita del Nolano e i tre personaggi attorno a cui ruota la trama sembrano quasi essere i tre volti che Bruno attribuisce all’ambiente da cui è fuggito; e la Napoli che egli descrive, quindi, non può che essere l’immagine riflessa del convento dei Domenicani di S. Domenico Maggiore in Napoli, e i personaggi ivi tratteggiati richiamare i vizi e le perversioni che vi aveva trovato.

per la cognizion distinta de’ suggetti, raggion dell’ordine ed evidenza dell’artificiosa testura, rapportiamo prima, da per lui, l’insipido amante, secondo il sordido avaro, terzo il goffo pedante: de’ quali l’insipido non è senza goffaria e sordidezza, il sordido è parimente insipido e goffo, ed il goffo non è men sordido ed insipido che goffo.

L’ambiente che doveva essere il suo ricetto, la madre amorevole che doveva permettergli di crescere ed in cui intendeva affermarsi egli lo denuncia insipido, avaro e goffo.
L’amore che vi cercava era tiepido e non appassionato, la sua crescita sapienziale lì veniva tarpata dall’avarizia dei confratelli, e l’insegnamento che vi poteva ricevere era saccente e contraddittorio.

Il primo dei tre personaggi (Bonifacio), quindi, rappresenta l’amore insipido che il convento offre. L’amante tiepido e tutt’altro che focoso, incapace di distinguere il Vero dal falso, che anziché concentrarsi sui suoi giusti doveri coniugali cerca di sedurre una donna che, però, è per niente sincera. Anzi è una prostituta che concede le sue grazie a pagamento e, inoltre, preferisce amanti giovani, ancorché ricchi, ai vecchi corteggiatori (immagine, questa di Vittoria, di una religione “deviata” e farisea). Egli è, quindi, la personificazione di un certo tipo di confessione religiosa che perde di vista la Vera Parola, e cerca la “comunione” con una sposa puttana, senza riconoscere la sua fraudolenta natura, e che fatalmente verrà tradito dalla sua legittima consorte che, gratuitamente e con piacere, si concederà al giovane amante (la Nolana filosofia impersonata dal pittore Gioan Bernardo, …e si ponga attenzione alle iniziali del suo nome). Bruno quindi non si riconosce come colui che tradisce la sua Fede, bensì come chi resta nell’alveo del Cristianesimo puro e originario, accusando, piuttosto, le devianze fraudolente della Chiesa Cattolica del XVI secolo che dimentica di amare i suoi figli.

Il secondo personaggio (Bartolomeo) è metafora della assurda pretesa di conciliare l’arte dell’alchimia con l’avarizia che Bruno imputava alla Chiesa dei suoi tempi; avarizia morale e materiale, e Barlolomeo, che intende trasformare in argento ed oro il metallo vile, ma senza impegnare compiutamente le sue risorse ne è chiara “maschera”. Peraltro, considerando che la “vera” Alchimia ha ben poco a che vedere con la metallurgia, che l’argento e l’oro dell’Opera non sono certo i metalli preziosi, che la pietra filosofale non è certo un minerale e, in sostanza, che l’Opera è la realizzazione dell’Uomo nella sua completezza fisica, ideale e morale quindi, in altri termini, l’individuazione del teorizzato quattrocento anni dopo da C. G. Jung, anche l’avarizia che Bruno addebita al Convento di S. Domenico Maggiore è di natura spirituale. Bartolomeo dunque è anche la parodia dell’alchimia metallurgica, che è certamente illusoria e truffaldina come il nostro. Bruno stesso così lo presenta nell’argomento: Bartolomeo …si beffa dell’amor di Bonifacio, concludendo che l’inamoramento de l’oro e de l’argento, e perseguire altre due dame, è più a proposito; ed è verisimile che, quindi partito, fusse andato a far l’alchimia nella quale studiava sotto la dottrina di Cencio. Il quale Cencio si discuopre barro, secondo il giudizio di Gio. Bernardo; e poi egli medesmo si mostra a fatto truffatore. Anche a costui, alla fine, toccherà la sorte di Bonifacio, anch’egli sarà tradito dalla moglie che trascura; infatti …mentre lui attendeva ad una alchimia, la moglie Marta facea la bucata ed insaponava i drappi; frase che sembrerebbe intendere che il mestiere di Marta fosse quello della lavandaia, ma… velatamente, tra “bucati” e “strofinii di abiti” (certo maschili) si intende anche quale sia la punizione che spetta all’avaro (verso la moglie) sperperatore (con chi è pronto ad imbrogliarlo). Anche in questo secondo caso l’avarizia è di doppia natura, materiale e morale, giacché Bartolomeo nega alla moglie sia il danaro per provvedere alle esigenze familiari che le attese attenzioni maritali, attenzioni che la donna (allegoria dei fedeli cattolici che invano attendono una parola di conforto e di sprone dalle autorità ecclesiastiche di quel secolo) spera comunque di riconquistare come sottolinea Bruno nel seguente passo: … fa una lamentevole e pia digressione circa quel studio di suo marito, che l’avea distratto da sue occupazioni megliori; mostra anco la diligenza che teneva in sollicitar gli suo’ Dei, a fin che gli restituissero il suo marito nel grado di prima. Speranza che anche Bruno coltiva e coltiverà fino agli infausti giorni del processo.

Il terzo tra cotanto senno non poteva essere che l’allegoria della pedanteria e della rozzezza (ma anche della pedofilia e della pederastia) del monastero da cui fuggire; quindi Manfurio.  Ma il destino della pedanteria e della rozzezza è segnato in partenza: essere sbertucciato dal sarcasmo e dalle beffe dei mariuoli napoletani; e qui Bruno non riesce a nascondere la sua simpatia per questi aspetti non certamente “dotti” e “sapienziali” della sua terra d’origine. E già si preconizzano gli atteggiamenti sarcastici del Teofilo della Cena delle ceneri e del Momo de Lo Spaccio de la bestia trionfante contro ogni forma di stolta saccenteria. E, finalmente, si compie il destino del saccente (qui è l’abbigliamento di Manfurio a rivelare quale sia l’altra metafora del convento domenicano: infatti egli si lamenta… che gli secondi marioli gli aveano tolte le vestimenta talari e pileo prezioso) di essere percosso dall’arguzia e dalla sfrontatezza dei mariuoli, di fronte ai quali nulla può se non scegliere la sua punizione. E la punizione di esso saccente sarà di tre (il numero del Sacro) spalmate sulle mani (l’organo che Bruno individua come strumento indispensabile dell’Opera) che, temendo di non poter più utilizzare, sostituisce con: “Più tosto cinquanta staffilate alle natiche”. Ma il castigo sarà completo, perché…de quali avendone molte ricevute, e confondendosi il numero or per una or per un’altra causa, avvenne che ebbe spalmate, staffilate, e pagò quanti scudi gli erano rimasti alla giornea, e sarà anche costretto, anche, a lasciare il mantello che non era suo, cioè l’habitus che ingannevolmente ostenta e, finalmente, resta costretto a mostrarsi nella sua vera essenza, un meschino.

Gabriele La Porta

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Ha detto recentemente Philippe Daverio che non c’è più alcuna autorità culturale che vigili sulle “fesserie” (eufemismo) che si pubblicano. In tal modo trovano risonanza (tra le pelli d’asino per tamburi) affermazioni e teorie che fino a non molto tempo fa si sarebbero guadagnate la sottolineatura in blu o in rosso nelle scuole elementari, e che talvolta disgraziatamente assurgono a capisaldi di pensiero dettando legge per decenni. Abbiamo pertanto ritenuto di segnalare con questa rubrica, aperta a tutti, le storture provenienti da “cervelli increspati” (definizione di Anacleto Verrecchia), che condizionano pesantemente il sapere. Il nostro non è un intento di censori o pedanti (sarebbe il colmo parlando del Bruno!) ma una rivisitazione bonaria e ironica per difendere il Bruno, che non può farlo, dagli “insulti” che ancora gli piovono addosso.
Nei casi più lievi ci limiteremo a fare come gli antichi spartani: esporremo sul Monte Taigeto i parti più debolucci, segnalando coloro che vagiscono ancora in età adulta, emettendo un suono fesso.
Nei più gravi, accompagneremo personalmente sin sul bordo della Rupe Tarpea coloro che, in buona o malafede, hanno danneggiato il Bruno, così come facevano gli antichi romani con i traditori. In entrambi i casi, i lettori saranno liberi di scegliere, attraverso un sondaggio, se assolvere, graziare permettendo al pupo di crescere, o dare, tutti insieme, una piccola spinta. Valens Acidalius

Questa volta, per non essere tacciati di misoginia e di anglofobia, ci occuperemo di un uomo, italiano: Gabriele La Porta.

Scrittore e giornalista, nato nel 1945, “il più longevo dirigente della storia della TV pubblica italiana” (apprendiamo da WP) ha lavorato in Rai per 42 anni; laureato in filosofia, si è subito occupato del Bruno; ha scritto oltre trenta pubblicazioni, ricevuto numerosi premi e ricoperto diverse cattedre. Una garanzia, quindi, e di spessore, sembrerebbe. Qui ci occuperemo dell’opera di Gabriele La Porta uscita nel 1991, giunta alla nona edizione nel 2010 per RCS: Giordano Bruno Vita e avventure di un pericoloso maestro del pensiero. Quando ci si accosta a personaggi di questo calibro, che hanno goduto di una vasta considerazione, normalmente lo si fa con un misto di riverenza e discrezione. Così ci accingiamo con circospezione, con la forchetta del goloso e il coltello del metodo diairetico, ad aprire e osservare l’interno di questo “calzone”, in apparenza appetitoso: infatti, con il suo lavoro di divulgatore Gabriele La Porta intende presentarci la figura del filosofo con dati storici Gabriele La Portacollegati a formare un romanzo. Aperto avidamente il calzone, notiamo con sorpresa che all’interno non c’è mozzarella ma formaggio francese: viene chiamato Roquefort, infatti, un presunto avversario del Bruno alla corte di Enrico III che vuole sottoporlo ad un contraddittorio, al quale Bruno risponde… con borborigmi! Scrive infatti La Porta: Si diffonde per  lo stanzone una sorta di musica leggerissima […] Ma chi sta suonando questo sconosciuto strumento? […] De Rocquefort avvicina il capo al ventre del filosofo, poi lo ritira con un guizzo. “E’ lui, sua maestà, è lui” grida con indignazione. E’ un vecchio trucco che Bruno ha imparato all’età di 10 anni da Giovanni Corvino. Consiste nel far risuonare il ventre come una cassa armonica […] una sorta di ventriloquismo musicale. (pagg.19/20). Ci sono state nella storia risposte anche peggiori, ad esempio quella del futuro faraone Amasi al messo del faraone in carica Aprieo: “Arrivato a destinazione, il messo invitò Amasi a ritornare, ma egli (per caso si trovava a cavallo) sollevata una gamba fece udire un suono e ordinò di portare quello ad Aprieo” [1] Da Gabriele La Porta, apprendiamo invece che Bruno è ventriloquo ed ha avuto un maestro di spicco, come si affermava già a pag.13: Le parole del suo primo compagno e maestro di studi, Giovanni da Corvino, erano vere. Bel maestro davvero e precoce, visto che il frate Gianni (14) di cui parla il La Porta divenne tale nel 1572 e ottenne l’insegnamento nel 1607 [2]. Ma ora è un ritratto del Bruno che cattura la nostra attenzione, realizzato seguendo le descrizioni di Bruno fatte da Shakespeare in Pene d’amor perdute (10) e in quali punti? Ma La Porta è convinto che nella commedia del Bardo il protagonista è proprio Giordano Bruno (n.2 pag.162) [3] La nostra sorpresa aumenta leggendo che il filosofo nella cerchia della Corte ha conosciuto il re Enrico III e l’erede al trono, il Delfino (14) e che il figlio del re, il Delfino, è balzato in piedi e corre ad abbracciare il Bruno (22)*. Quale Delfino? Magari l’avesse avuto, il Valois. E ancora, leggiamo in un capitolo (127/133) di un incontro di Bruno con Shakespeare a Londra, dove si descrive il drammaturgo come già famoso mentre, nel periodo del soggiorno inglese del filosofo (apr 1583-ott 1585 [4]), Shakespeare non poteva avere più di venti anni e viveva a Stratford upon Avon. Le “fluttuazioni” temporali si allineano a quelle descrittive in cui si mischiano costantemente ermetismo e magia, misteri, poteri occulti e massoneria; sentiamo ancora una volta il ritornello ripetitivo del “Mago”, stile Danza delle ore, stucchevole se rapportato ai nostri tempi. Si riprende così la Yates: i giordanisti erano presenti in tutte le università dell’epoca come una gigantesca ragnatela che assomiglia a una consorteria di tipo massonico (57)Ovvio che il Bruno avesse dei seguaci, ma sparuti e non in grado di dargli sostegno, come dimostrano i continui allontanamenti del loro maestro dalle università. Ma in quest’opera si alternano stranamente riflessioni interessanti, come quelle sull’importanza dei codici platonici portati a Firenze, con affermazioni gratuite, nomi di fantasia e situazioni strampalate. Questa commistione, (una miscellanea di gusti azzardati e contrastanti, per proseguire con la metafora) fa dubitare anche delle affermazioni corrette e, soprattutto, inganna il lettore non informato. Troppi i personaggi inventati di sana pianta: Martowe con i due doppi spadini alla cintura e Korthx con l’ascia bipenne, (103), ad esempio, sono due commensali di Sidney, e l’ultimo appare come un vichingo medievale. Troppi anche gli svarioni: leggiamo a pag. 103 I cavalieri dell’Ordine della Giarrettiera. Un movimento esoterico che si ispira direttamente alla filosofia di Giordano Bruno. Peccato che l’Ordine sia stato fondato nel medioevo; si legga inoltre, nella Cena delle Ceneri, come gli inglesi trattavano i forestieri, Bruno compreso. A pag.133, l’architetto Inigo Jones (nato nel 1573) viene definito: pittore di Elisabetta e artista che ha creato il mito della grande regina; osserviamo che la Regina era al potere dal 1558 e la sua apoteosi era stata la sconfitta dell’Armata spagnola nel 1588, quando il Jones aveva 15 anni. Poco dopo, nell’incontro del Bruno con Elisabetta (storicamente avvenuto) narrato a pag.117, il filosofo praticamente la ipnotizza (!) suscitandole una visione: l’immagine si fa riconoscere. E’ Maria Stuarda. […] Quel mago, quel sapiente le ha mostrato il futuro della Sanguinaria. Morirà per il taglio della testa. Ma Maria Stuarda non è Maria la Sanguinaria, morta 26 anni prima. E ancora, vediamo una scena di un incontro in carcere dell’inquisitore Bellarmino col Bruno che gli chiede: Ho saputo che si sono sposati Enrico IV e Maria dei Medici, nipote del Granduca di Toscana. Voi che ne pensate? Ma il contratto fu stipulato nel marzo 1600 mentre il famoso banchetto di matrimonio si tenne addirittura nell’ottobre 1600.* Per finire: a pag. 144 si parla del frate Celestino da Verona famoso nel suo convento soltanto per le sue incessanti masturbazioni notturne […] il povero onanista è stato pagato per muovere le accuse e non riesce neppure a salvarsi dalla tortura. Perché il tribunale veneto, per toglierli il difetto, lo farà castrare e poi per non sentirne più i lamenti decide di farlo uccidere annegandolo in una segreta. Curiosità sessuali a parte, e non considerando la prassi della Repubblica Veneta di affogare i condannati a morte nelle acque della laguna, Celestino da Verona fu bruciato vivo, a Roma, il 16 settembre 1599 [5] .* Tralasciamo altri inciampi notando solo due venialità: (pag.96) Substine et abstine dicevano i filosofi di Stoa. I filosofi della Stoa, essendo greci, evidentemente storpiavano il latino che correttamente recita Sustine et abstine; e a pag. 136: Bellarmino si trova ora, in questa mattina del gennaio 1699, refuso evidente che però, dopo dieci edizioni, avrebbe anche potuto essere rilevato. Alla fine, dalla lettura di questo romanzo, pur scritto con entusiasmo, in cui si trova di tutto e di più, emerge una specie di Bruno Potter, del quale non si sentiva la mancanza. Quello che invece manca è il Bruno vero, il filosofo che poteva affermare: “Io nei miei pensieri, parole e gesti non so, non ho, non pretendo altro che sincerità, semplicità, verità”.[6] 

[1] Erodoto, Le storie, II, 162
[2] Spampanato, Vita di Giordano Bruno, Aragno 2000, pag.478  e 480
[3] Chi volesse sviscerare l’argomento, almanaccato già dalla Yates, legga Sacrificio e Sovranità di Gilberto Sacerdoti, Einaudi 2002, ma in Love Labour’s Lost (1595) troverà soltanto un’assonanza col nome del personaggio Berowne.
[4] Giovanni Aquilecchia, Giordano Bruno, Aragno 2001, pag.34 e 57
[5] Avviso romano del 17/9/1599  e Luigi Firpo, Il processo di Giordano Bruno, Salerno, 1998 pag,43.
* Ringraziamo il Professor Maurizio Ceccon per queste segnalazioni.
[6] Spaccio della bestia trionfante, Epistola esplicatoria, Dialoghi Sansoni, 551.

Karen Silvia de Leon-Jones

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Ha detto recentemente Philippe Daverio che non c’è più alcuna autorità culturale che vigili sulle “fesserie” (eufemismo) che si pubblicano. In tal modo trovano risonanza (tra le pelli d’asino per tamburi) affermazioni e teorie che fino a non molto tempo fa si sarebbero guadagnate la sottolineatura in blu o in rosso nelle scuole elementari, e che talvolta disgraziatamente assurgono a capisaldi di pensiero dettando legge per decenni. Abbiamo pertanto ritenuto di segnalare con questa rubrica, aperta a tutti, le storture provenienti da “cervelli increspati” (definizione di Anacleto Verrecchia), che condizionano pesantemente il sapere. Il nostro non è un intento di censori o pedanti (sarebbe il colmo parlando del Bruno!) ma una rivisitazione bonaria e ironica per difendere il Bruno, che non può farlo, dagli “insulti” che ancora gli piovono addosso.
Nei casi più lievi ci limiteremo a fare come gli antichi spartani: esporremo sul Monte Taigeto i parti più debolucci, segnalando coloro che vagiscono ancora in età adulta, emettendo un suono fesso.
Nei più gravi, accompagneremo personalmente sin sul bordo della Rupe Tarpea coloro che, in buona o malafede, hanno danneggiato il Bruno, così come facevano gli antichi romani con i traditori. In entrambi i casi, i lettori saranno liberi di scegliere, attraverso un sondaggio, se assolvere, graziare permettendo al pupo di crescere, o dare, tutti insieme, una piccola spinta. Valens Acidalius

Prendiamo in esame un’altra delle etichette appiccicate al Bruno in tempi recenti, quasi si trattasse di un vaso di unguenti in una farmacia antica: Bruno cabalista.

Ne parla diffusamente nella sua opera, Giordano Bruno and the Kabbalah*, Karen Silvia de León-Jones. Questa ricercatrice in studi religiosi pur arrivando alla conclusione che Bruno non è cabalista nel senso più stretto del termine (q1) e che non etichetterà Bruno come cabalista (q2), cade tuttavia nell’errore di esaminare la Cabala del cavallo pegaseo con l’aggiunta dell’asino cillenico, il libro più divertente e satirico del Bruno, con estrema serietà. Ma non è la sola: anche alcuni che lei indica come suoi maestri cadono in questo equivoco. Bruno diceva ironicamente degli eruditi ricchi di sfoggio e poveri di comprensione: “Come dimostrano bene che essi sono gli unici a cui Saturno ha pisciato il giudizio in testa”**. L’irresistibile gioco di parole bruniano: “…eccovi Cabala, Teologia e Filosofia, dico una Cabala di filosofia teologica, una Filosofia di teologia cabalistica, una Teologia di cabala filosofica”…***, diventa secondo la studiosa una inseparabile triade, un legame teologico-filosofico per includere la cabala (pag.9), un sistema, filosofico, teologico, ermeneutico del quale Bruno si serve come espediente ermeneutico per introdurre e spiegare le sue teorie personali (q3); e lo sconosciuto dedicatario dell’operetta ironica, Karen Silvia de Leon-JonesDon Sapatino, risulta il simbolo dell’unione fondamentale dei tre concetti (pag.24).
L’errore interpretativo mette in ombra anche alcune osservazioni interessanti dell’autrice (ad esempio sull’uso da parte del Bruno di termini cabalistici quali “indumenti” e “dimensioni”, pag.36/37), e genera altri errori, come considerare un’altra divertente frase dell’Epistola dedicatoria della Cabala un usare la tradizionale dicotomia aristotelica (ndr. fisica e metafisica) ad indicare che un filosofo non è diverso da un teologo o cabalista e viceversa (q4), esattamente il contrario di quanto il Bruno volle rivendicare anche a costo della vita: la libertà di essere filosofo.
La mancata accordatura del suo strumento impedisce all’autrice, sin dalle prime pagine, di sentire le dissonanze a cui la portano obbligatoriamente le note false che ne ricava. Se non si sanno riprodurre le note giuste non si può fare musica. Sarebbe assurdo, ad esempio, voler analizzare il Dizionario Filosofico di Voltaire prendendone il testo paradossale in modo serio. Così seguono contraddizioni e incomprensioni: a dispetto del suo voler considerare il Bruno come un nuovo profeta, la de León-Jones si vede costretta a riconoscere che il tono della interpretazione del Bruno non è particolarmente profetico (q5)che il Bruno tuttavia complica la faccenda (q6) tanto che i suoi confini filosofici sono talvolta difficili da distinguere (q7); ed è logico, perchè se le premesse sono errate, le conclusioni risultano, nel caso migliore, comiche. Esempi: Bruno utilizza l’immagine dell’asino per rappresentare metaforicamente la mistica (q8) e l’affermazione che La cabala e l’asino è esattamente quello che il titolo richiama, un dialogo di sovrastrutture cosmologiche (q9), un superciuccio insomma.
La de León-Jones sostiene di aver approfondito l’interpretazione dell’asino della Yates, più semplice, in quanto incapace di cogliere gli aspetti cabalistici inerenti al simbolo (q10) e rileva che Cabala è esattamente quello che il titolo pretende di essere, un trattato di cabala (q11). Peccato che il Bruno aggiunse alla Cabala del cavallo pegaseo il testo ancor più paradossale de L’asino cillenico.
Povero Bruno! Si riferì probabilmente a quel suo divertissement quando dichiarò al processo veneto (II costituto del 30 maggio 1592): “ho alcune opere composte da me e date alla stampa, le quali non approvo”, temendo che le sue idee fossero travisate.
Conclusione. Una riflessione generica, che non riguarda la de León-Jones: col flusso di immondizie culturali che ci sono pervenute sin dagli anni cinquanta dagli Stati Uniti, abbiamo conosciuto vari tipi di superuomini: l’impiegato volante, il pipistrello, il ragno, la formica. Non abbiamo bisogno del superasino: di quello ce ne siamo già accorti noi da tempo.
Alla nostra studiosa di religione e teologia consigliamo una bella boccata di aria fresca, accompagnandola gentilmente in gita sul Monte Taigeto.

* Giordano Bruno and the Kabbalah, Yale University Press, 1997, ediz. First Nebraska 2004.
** Il Candelaio, edizione Excelsior1881, Milano, 2008, Proprologo pag.35.
*** La cabala e l’asino, Excelsior1881, Milano, 2010, pag.29.
q1 Bruno is not a Kabbalistic in the strictest sens of word (pag.181)
q2 I will not label Bruno as a Kabbalist (id.)
q3 In the dialogue Cabala Bruno uses the Kabbalah as a hermeneutic device to introduce and 
explicate his own theories (20)
q4 Taking the traditional Aristotelian dichotomy to mean that a philosopher is not different than
a theologian or Kabbalist, or vice versa (24)
q5 The tone of Bruno interpretation is not particularly prophetic (182)
q6 Bruno however complicates the matter (112)
q7 The philosophical boundaries are sometimes difficult to distinguish (84)
q8 Bruno utilizes the image of the Ass to metaphorically represent the mystic (27)
q9 A dialogue of cosmological superstructures (21)
q10 Yates offers a simpler interpretation of the symbol of the Ass, for she is unable to perceive
the Kabbalistic aspects inherent the symbol (20)
q11 His dialogue Cabala is exacting what its title claims to be: a work of Kabbalah (17).

Versione tedesca de “Giordano Bruno, il Profeta dell’universo infinito”

Libro Profeta tedesca

Festeggiato a Napoli il terzo anniversario dell’inaugurazione dell’Aiuola del libero pensiero, lo spazio verde che la Giordano Bruno Society ha preso in affido, nella centrale piazza Sannazaro, dedicandolo al filosofo Nolano.

A conferma della vocazione internazionale dell’iniziativa, è stata presentata la versione in lingua tedesca del fortunato libro di Guido del Giudice “Giordano Bruno, il Profeta dell’universo infinito”.

La traduzione è stata realizzata da due Bruniani appassionati e competenti, Venera Tirreno e Nicolas Benzin, impegnati da anni a Francoforte nella diffusione della “Nolana filosofia”.

Salgono così a sette le lingue in cui è possibile leggere il libro.
E’ infatti questo un contributo multilanguage che prende forma attraverso le disponibilità di appassionati e ammiratori del filosofo. Sono sempre più, quindi, coloro che si propongono anno dopo anno affinché il “Profeta” possa essere messo a disposizione delle più disparate culture mondiali.
Vai al link e scopri in quali altre lingue è disponibile:
http://www.guidodelgiudice.it/giordano-bruno-profeta-multilanguage/

Due date da rettificare nelle biografie di Giordano Bruno

Approfittando delle considerazioni fatte nella nota precedente sulla vita del Nolano, voglio soffermarmi su alcuni aspetti interessanti della biografia del filosofo.

Premetto che ho rilevato un importante errore relativo alla data in cui si svolse la famosa Cena delle Ceneri, giacché la data riportata dallo Spampanato e da tutti gli altri biografi e studiosi di Bruno, il 14 febbraio 1584, è senza ombra di dubbio errata: intanto il 14 febbraio era di martedì e non di mercoledì (cioè il giorno delle Ceneri); tale ricorrenza religiosa, celebrata 40 giorni prima della settimana pasquale infatti, cadeva il 15 febbraio negli Stati che avevano adottato, a partire dal 5 ottobre 1582, il nuovo calendario gregoriano (la Francia dal 10 dicembre 1583); ma in Inghilterra, a Londra dove si svolse la cena, si era ancora al 5 febbraio, giacché il calendario giuliano fu abbandonato solo nel XVIII secolo; inoltre, nei Paesi che utilizzavano ancora il calendario giuliano la Pasqua del 1584 cadde il 19 aprile e quindi il giorno delle Ceneri, lì a Londra, fu il 4 marzo. La celebre ‘cena delle Ceneri’, pertanto, potrebbe aver avuto luogo in quel giorno, con il calendario in vigore in Inghilterra. Ove mai, in spregio alla fede cattolica del Nolano, l’invito gli fosse stato fatto per il giorno in cui presso l’ambasciata francese si celebrava tale scadenza, la cena sarebbe stata programmata per il 5 febbraio, appunto, e non il 15 (a Londra). È poco credibile che la delegazione francese in terra anglo-sassone seguisse un calendario differente da quello del luogo ospitante.

crepuscoloDimostrata la poca dimestichezza con le date ed i calcoli da parte degli studiosi del Nolano, più interessati al suo pensiero che alla sua vita, cosa ineccepibile ma solo finché non si accampa la pretesa di essere nel giusto a prescindere, anche in considerazioni affrontate con grande pressapochismo, vado a rilevare un altro errore marchiano circa la sua data di nascita e quella della sua ordinazione sacerdotale. Lo Spampanato pone la data di nascita tra il gennaio ed il febbraio del 1548, sulla base di alcune sue considerazioni assolutamente gratuite e, persino, sbagliate… considerando proprio gli stessi documenti da lui citati. Orbene, nella sua monumentale opera, Vita di Giordano Bruno, alle pagg. 56-57, nella nota 6, e poi alla pag. 162, lo Spampanato scrive che Bruno sarebbe nato tra i mesi di gennaio o febbraio perché: “…egli stesso aggiunse, fui promosso al sacerdozio alli tempi debiti.; secondo lo studioso nolano ciò significava “…nelle prime quattro tempora del 1572, quando aveva compito ventiquattro anni.” Supporre che per Bruno li tempi debiti coincidessero con uno dei quattro periodi dell’anno dedicati alla consacrazione sacerdotale (ma perché, poi, per forza il primo?) e non quando era giunto semplicemente il ‘momento giusto’ è pura forzatura; ma non basta! Bruno non può essere stato ordinato sacerdote nel 1572 proprio perché aveva ancora 24 anni. E ciò proprio citando i documenti fornitici dallo Spampanato che, nella stessa nota 6 ricorda gli Atti del Capitolo generale domenicano del 1564 che imponeva “Nullus itaque in posterum… ad presbiteratus ordinem ante XXV aetatis suae annum promoveatur. Come già emerso dalle ricerche di Michele Miele, fu, quindi, nel 1573 che Bruno venne ordinato sacerdote, e non poteva essere altrimenti se egli fu iscritto come studente formale di Teologia solo il 21 maggio 1572. Spampanato stesso sottolinea la rigidità dell’Ordine domenicano che non avrebbe mai elevato alla consacrazione sacerdotale un suo membro che non avesse compito gli studi previsti. Già per Bruno, chissà poi perché, si accelerarono i tempi di tali studi; pensare che l’ordinassero prima che li avesse terminati e quando non aveva ancora compiuto 25 anni è del tutto fuori luogo.

Or dunque, pur volendo accogliere, cosa peraltro probabilissima, la tesi che egli sia stato ordinato in una delle quattro tempora, la data più probabile è subito dopo il 15 settembre 1583 (quando aveva certamente compiuto il venticinquesimo anno d’età e subito prima di un nuovo anno accademico) quando cominciava la terza terna di date utili per quella consacrazione. Questa considerazione fa ‘saltare’ le ipotesi dello Spampanato sul periodo gennaio/febbraio. Volendo ‘forzare’ la fortuna, e provare ad ipotizzare una data per la sua nascita, propongo la seguente ipotesi: Bruno era certamente un provetto astrologo, come ha dimostrato in diverse sue opere; ed è molto strano che non si sia informato presso i suoi parenti della data e dell’ora stessa della sua nascita; accettando che l’abbia fatto, è nel Candelaio che il Nolano fornisce due elementi ben precisi per individuare una data ed un’ora di nascita. È vero che li attribuisce a Bonifacio ed a Corcovizzo, due suoi personaggi non certamente degni di stima, ma Bruno, oltre ad essere uno spirito faceto teorizzava la sintesi dei contrari e la coincidentia oppositorum e quindi certo non temeva di confondersi con due personaggi ben lungi da lui per moralità e valore; inoltre sono gli unici riferimenti di questo tipo che possiamo ritrovare nelle sue opere. Ebbene Bruno dice che Bonifacio è nato quando Venere era al 27 grado di Gemelli e Corcovizzo con l’ascendente nel segno di Minerva. Nel 1548 Venere si trova al 27 grado di Gemelli il 5 maggio (ovviamente con il vecchio calendario giuliano), e l’ascendente in Ariete (il segno di Minerva) pone la sua ora di nascita all’incirca nelle due ore precedenti il sorgere del Sole, verso le 3 o le 4 del mattino, quindi. Tale data è quanto meno verosimile, se si tiene conto che tutte le date che scandirono il periodo di permanenza a S. Domenico Maggiore sono immediatamente successive al 5 maggio (egli divenne novizio a metà giugno del 1565 e, sempre a metà giugno, professo, suddiacono e diacono; e sempre subito dopo la metà di maggio 1573 fu iscritto allo Studio di Teologia). Invenzione per invenzione, almeno questa non è basata su elementi falsi o errati. E non ha la pretesa di essere attendibile!

Bentornati nel sito ufficiale dei seguaci di Giordano Bruno.

sito ufficiale

Dopo vent’anni di attività, contrassegnati dal crescente interesse di studiosi e appassionati, che hanno contribuito a renderlo sempre più ricco e interessante, si è reso necessario un intervento di restyling. La lunga gestazione ha comportato qualche disagio per i visitatori, ma penso che il sacrificio sia stato ben ricompensato. In questa nuova versione sono stati ordinati i numerosi contenuti in modo da renderne più agevole la fruizione e si sono aggiunte nuove rubriche. Una particolare attenzione è stata rivolta alla sezione “Immagini”, suddivisa in tre sezioni: una dedicata ai volti di Bruno e le altre due, rispettivamente, alle lapidi e ai monumenti dedicati al Nolano in tutto il mondo. A questo proposito, invito chiunque avesse segnalazioni da fare, ad inviarmi notizie ed immagini. Alla mia ormai storica “Mordacchia”, si aggiungono due nuove rubriche: “Le spulciature” e “L’angolo di don Sapatino”, curate con competenza da Gianmario Ricchezza e Saverio Pirozzi, ai quali do il benvenuto sulle pagine del sito. Come sempre si è cercato di privilegiare i contributi degli appassionati, siano essi studiosi o semplici ammiratori del Nolano, rifuggendo i toni saccenti degli accademici. Un’altra nuova rubrica, partita con notevole successo nel gruppo Facebook, è il Debunking Bruniano”, che segnala i numerosi falsi, i cosiddetti ”fake”, che infestano la Rete sotto forma di immagini e video, attribuendo a Bruno parole e frasi che egli non ha mai pronunciato. Un servizio molto richiesto da coloro che si avvicinano ora al pensiero del filosofo e quanto mai necessario, in considerazione dell’incontrollato copia-incolla che caratterizza il Web. Altra interessante novità, Autori ed Editori che vogliano pubblicizzare un libro, purché di interesse ”Bruniano”, possono inviarne una copia alla redazione del sito che la recensirà nell’apposita sezione.

Infine, sento il bisogno di esprimere un grazie sincero al mio Social Media Manager, Giuseppe Barbato, alla cui entusiastica e disinteressata passione bruniana si deve questo lavoro, che sono certo otterrà il meritato apprezzamento. Non tutto è ancora sistemato e continueremo ad apportare miglioramenti alle varie sezioni: commenti e suggerimenti sono, quindi, sempre bene accetti. Buona navigazione! 

Guido del Giudice

Giordano Bruno, eretico più forte di ogni rogo

La sua lezione: tolleranza, gratuità della conoscenza e critica dei fondamentalismi
Presentata a Londra l’edizione critica delle opere del pensatore condannato a morte. Ne parla Nuccio Ordine, suo grande studioso

L’evento è di rilievo. Dopo l’edizione francese Belles Lettres, finalmente anche l’Italia ha l’edizione critica delle Opere italiane di Giordano Bruno, curata da Giovanni Aquilecchia per l’Utet. Filosofo molto amato o molto odiato, Bruno è purtroppo poco letto. Eppure le sue pagine appaiono geniali anche ai profani. Si tratta ora di farlo uscire dagli stereotipi e apprezzarlo per quello che è: un pensatore grandissimo che ha discusso con anticipo tanti temi della modernità. Ne parliamo con Nuccio Ordine, che di Giordano Bruno è studioso di fama internazionale (il suo libro, La cabala dell’asino , è stato già tradotto in cinque lingue), prefatore e coordinatore di questa edizione Utet.

Perché Bruno, oggi?
«Basta rileggere alcune sue pagine per capirlo. In un’epoca in cui le scuole e le università vengono trasformate in aziende e il sapere diventa uno strumento per adeguarsi alle logiche del mercato, le riflessioni di Bruno suonano come un monito: rivendicano la gratuità della conoscenza. Non si studia per accumulare ricchezze o potere. Si studia per capire se stessi e il mondo. Per imparare a pensare criticamente. Ma la conoscenza, al contrario di quanto oggi vogliono far credere certe pedagogie edonistiche, non è un dono, ma frutto di una faticosissima conquista».

È difficile trovare qualcuno che lo dica ai giovani d’oggi.
«Sempre più difficile, in un mondo dove tutto deve essere facile e veloce. Tutta l’esistenza, per Bruno, si concretizza invece in un’inesauribile ricerca del sapere. Solo gli dei, che sanno tutto, e gli ignoranti, che presumono di sapere tutto, non cercano».

A questa riflessione si lega anche un altro tema ancora oggi percepito come eversivo: il rifiuto di un punto di vista assoluto.
«Assolutismi e fondamentalismi sono i mali del presente. La cosmologia infinitistica di Bruno insiste sulla relatività dei punti di vista, distruggendo ogni gerarchia. Una pulce e un pianeta hanno lo stesso peso. Così come tutti gli esseri viventi hanno uguale dignità. Questioni ignorate dai fautori degli scontri religiosi e delle guerre mascherate da missioni di pace».

Senza pluralismo non c’è comprensione dell’Altro.
«La tolleranza è uno dei concetti cardine della filosofia di Bruno. Tollerare significa percepire i limiti del proprio punto di vista e concepire il pluralismo non come ostacolo ma come ricchezza. Per Bruno esistono le religioni, le filosofie, le lingue. Il rigurgito di nazionalismi e di razzismi si pone come una gravissima minaccia per l’Europa e per l’umanità».

Ciò accade soprattutto quando è viva la scissione tra sapere e vita, pensiero e prassi…
«Per Bruno, la vita non può essere separata dalla filosofia. Così come il pensiero non può essere separato da una serie di comportamenti che devono essere in sintonia con esso anche nei gesti più umili. Bruno scrive le sue opere ma nello stesso tempo le sue opere scrivono la sua vita. Non a caso l’ultima pagina della sua filosofia coincide con il rogo di Campo de’ fiori».

Però quel tragico finale ha finito per costruire un mito che, paradossalmente, ha danneggiato le opere, occultandole.
«È per questo che dall’inizio degli anni 90 abbiamo lavorato per fornire un’edizione critica delle sue opere». Che colma, in Italia, un enorme vuoto editoriale …
«Per la prima volta tutte e sette le opere italiane vengono pubblicate assieme: il Candelaio e i sei Dialoghi ritrovano sul piano editoriale quell’unità che esprimono sul piano filosofico. È un evento frutto di un’alleanza tra due grandi editori di classici: Belles Lettres e Utet. Edoardo Pia concesse ad Alain Segonds l’autorizzazione a utilizzare alcuni testi di base che Aquilecchia aveva approntato per l’Utet. A partire da quei materiali, Aquilecchia ha messo a frutto, in Francia, cinquant’anni di filologia bruniana realizzando la sua preziosa edizione critica che oggi viene pubblicata dall’Utet. Questa edizione non avrebbe visto la luce senza il sostegno di Gerardo Marotta, presidente dell’Istituto italiano per gli studi filosofici, che ha promosso gli studi bruniani nel mondo».

Ma anche i commenti e le appendici sono di grande utilità…
«Alla loro stesura hanno collaborato importanti studiosi di diversi Paesi europei, come Badaloni e Barberi Squarotti, Granada e Seidengart. Si è trattato di un lavoro collettivo, durato dieci anni, con storici della filosofia, della letteratura, della scienza. Bruno richiede diverse competenze. Anche l’appendice è ricca di strumenti inediti: per la prima volta c’è un rimario, un incipitario e una tavola metrica di tutti i componimenti bruniani; un saggio sull’iconografia bruniana ricco di immagini e una documentazione iconografica sugli emblemi».

Come si appresta, l’Europa, a celebrare questo evento editoriale?
«Ieri, a Londra, con Conor Fahy, Lina Bolzoni e Jill Kraye. Martedì prossimo, a Parigi, con Ilya Prigogine, Marc Fumaroli e Michèle Gendreau-Massaloux. E poi a Berlino, a Barcellona, a Ginevra e a Bucarest. A partire da questa edizione di Aquilecchia sono in programma traduzioni in tutto il mondo: dalla Cina al Giappone, dalla Germania a diversi Paesi dell’Est europeo.

Bruno e gli anglofoni

Dall’epoca del Grand Tour l’Italia ha suscitato un’attrazione particolare nei figli di Albione. I primi decenni dell’800 videro un nugolo di inglesi, autentico sciame ronzante, calare nella nostra penisola eleggendo alveari nelle principali località, con una predilezione per Firenze. Esiste ancora, in Piazzale Donatello, un cimitero che conta 760 loro sepolture. Dai registri di iscrizione al Gabinetto Vieusseux – circolo di lettura creato nel 1819 dallo svizzero Giovan Pietro Vieusseux a Palazzo Buondelmonti – si nota la massiccia frequentazione di inglesi a questa pregevole istituzione, tra le prime a dotarsi di giornali e comodi divani a disposizione per la lettura (e altro). Il fatto curioso è che si trattava per la gran parte di focosi capitani (non maggiori o colonnelli) che in tanti casi furono piuttosto lenti a rinfoderare lo spadino, lasciando incinte stuoli di fanciulle, la più nota delle quali fu Ottilie von Goethe, moglie del figlio gnoccolone[1] del grande tedesco.
Con questo preambolo cerchiamo di spiegare come mai, parlando del Bruno, ci imbattiamo spesso in personaggi anglofoni. Orbene, la professoressa americana Ingrid A.Rowland ha il merito di far conoscere con le sue traduzioni e divulgazioni alcune opere non comuni nemmeno in Italia, come i Dieci libri di Architettura di Vitruvio e gli Eroici Furori. Nel 2008 ha pubblicato una biografia del Bruno[2], da noi edita da Laterza, di ampio respiro, che tuttavia ci ha lasciato qualche perplessità. A parte il non aver citato la biografia di Dorothea Waley-Singer, dalla quale l’autrice trae diverse asserzioni, che fu un pilastro se paragonata ai tempi (1950) e di cui nessuno vuole più ricordarsi, abbiamo provato una certa inquietudine quando, parlando dei Libri Sententiarum di Pietro Lombardo (ca.1100-1160) la Rowling scrive: “Il manuale era stato scritto nel XII secolo dal domenicano Pietro Lombardo” (pag.53). Ora un lapsus può sfuggire: come si sa, domenicani sono detti i frati dell’Ordine dei Predicatori, approvato a fine 1216 e fondato un anno prima da Domenico di Guzmàn (1170-1221) a Tolosa; ma poco dopo leggiamo, con disagio: “Pietro Lombardo, nelle sue Sentenze, gli aveva conferito un significato più specificamente teologico: il domenicano…” concetto ribadito infine alla pag.54: “precisione domenicana di Pietro Lombardo” . Strano che nessuno dei numerosi revisori, da lei citati nei Ringraziamenti, si sia accorto di queste pulci che, benevolmente, desideriamo togliere.

Buonamico Buffalmacco    

[1] Vedi il divertente libro di Anacleto Verrecchia, Schopenhauer e la Vispa Teresa, Donzelli 2006

[2] Giordano Bruno Philosopher/Heretic, Farror, Straus and Giroux LLC, New York 2008

L’imbecillità è una cosa seria

Diceva l’abate Galiani che “les sots font le texte, et les hommes d’esprit font les commentaires”.

Oggi la massima vale – letteralmente – anche per l’editoria: gl’imbecilli scrivono libri e gli uomini di spirito li stroncano.

I libri sull’imbecillità solleticano da sempre la vanità del lettore medio che vi si vede raffigurato quasi fosse un eroe arturiano (a tanto giunge la vanità umana), divertono pure chi se ne crede immune (altra vana pazzia), insomma son libri che – come si dice leggiadramente in ambito editoriale – tirano.

imbecilliIl Mulino ha pensato bene di doppiare uno dei suoi titoli più smerciati – il volumetto di Carlo Cipolla sulla stupidità umana – con un altro “cipollotto” per dir così, questa volta filosofico. Il professor Maurizio Ferraris non è nuovo a questi libercoli in salsa agrodolce, genere take-away. Filosofo televisivo e trendy (scrisse pure corsivi per Donna Moderna nei quali discettava su come s’indossa una filosofia autunno-inverno), appartiene a quella schiera di pop-philosophers che – tra una metafisica del telefonino e una fenomenologia dell’Ikea – mandano bellamente in vacca la Filosofia, facendole indossare il cappello a sonagli o – se si preferisce – minigonna e zeppe da lucciola.

Il libro di Ferraris (che è illeggibile e, a dispetto dell’argomento frivolo, assai gnucco) va saggiato alla maniera del cocomeraro col cocomero: bisogna cavarne via solo una piccola porzione, col serramanico, sputandola poi subito s’intende.

In questo genere di roba parauniversitaria è uso cominciare con le paraetimologie (Heidegger docet): abracadabra semantici che dovrebbero svelare chissà quali arcani nelle parole (per questo però ci son già i dizionari etimologici, meno “fondazionali” ma più seri). Con buona pace di Ferraris e dei suoi etimi pindarici, non è l’imbecillità a esser costitutiva nell’uomo (cosa che sarebbe ancora ancora consolante), bensì la malvagità. Il savio Biante volle scrivere sul frontone del tempio delfico Οἱ πλεῖστοι κακοί (“I più sono malvagi”), giacché la stupidità umana ne era un semplice corollario.

Uno dei sommi imbecilli – secondo il professor Ferraris – è Giordano Bruno: “coglione” perché, incaponitosi a difender le proprie idee a costo della vita, al contrario dell’astuto Campanella (poi astutamente in carcere per trent’anni), si fece “arrostire”. Turpitudine filosofica e morale che, per la sua enormità e vigliaccheria, è degna solo d’un qualche cocito “in servigio de’ traditori” della Filosofia o forse d’un’aula magna.

Altro campione d’imbecillità (chiedo venia se l’affianco qui all’immenso Bruno) è Martin Heidegger. Che Heidegger fosse un imbecille – a me – è sempre parso palese, direi cristallino, concordo quindi più con me stesso che con Ferraris, il quale di Heidegger sotto sotto è un epigono, una specie di fan col poster in camera. Lui e i suoi maestri Gadamer e Vattimo (come del resto molti altri filosofi della domenica o da domenicale) debbono a questo nazista in tracht, alle sue fole ermeneutiche e misteriosofiche, fulgide quanto enigmatiche carriere universitarie, collaborazioni giornalistiche, villini e case al mare. Dovrebbero portare in processione il magnifico nazi-rettore, recitarne a memoria Die Selbstbehauptung der deutschen Universität quasi fosse un credo capace di smuover cuori e danari. Oggi invece, dopo la pubblicazione dei Quaderni neri, la fortuna heideggeriana ha svoltato e, similmente agli amici nelle disgrazie, epigoni e imitatori si dileguano oppure tentano comici “distinguo” per salvare capra (Heidegger) e cavoli (loro stessi). Ferraris, che non è Giordano Bruno (ci mancherebbe), non ci pensa nemmeno a soccorrer Heidegger in disgrazia, rischiando magari la propria dorata carriera (“carriera” secondo una nota paraetimologia heideggeriana significa “carro del vincitore”); così lo abiura, chiamandolo pure – per colmo di sfottò e bullismo – imbecille delle Prealpi (e chissà se sul letto di morte, ravvedendosi, dirà E pur si muove il prealpino! chissà?).

Dopo il molto reclamizzato (ancorché per noi indifferente) parricidio filosofico di Derrida, seguito dal matricidio di Vattimo, entrambi a noioso mezzo stampa, Ferraris ci propina ora il nonnicidio di Heidegger (viene in mente Sgalambro: la spassosa definizione di tombeur de philosophe: “C’è pure questo tipo. I filosofi gli passano davanti come in un girotondo. Lévinas succede a Popper che succede a Heidegger a cui succede Gadamer, a cui succede… Questo tipo ‘ama’ i filosofi – non la filosofia”). Beh Ferraris i suoi amati maestri li fa proprio schiattare, li liquida appena non gli servono più: reinterpretazione professorale e pulp del classico Amicus Plato, sed magis amica veritas.

In uno degli ultimi capitoli a Ferraris scappa di dire: bisogna farsi furbi per stare al mondo. Dunque l’opposto dell’imbecille, per lui, è il furbo. Vecchia storia italiana! anche se con la cammesella nuova che le rifila lo spilorcio professore: capo d’haute couture lavorato a Secondigliano. Sul tema aveva già detto tutto Prezzolini nel suo Codicillo, al quale occorre rifarsi per schifare Ferraris e le sue stracotte tartuferie: “Il furbo – scrive Prezzolini – è in alto in Italia non soltanto per la propria furbizia, ma per la reverenza che l’italiano ha della furbizia stessa” e ancora  “I furbi non usano mai parole chiare” e infine “Non è vero che l’Italia sia un paese disorganizzato. Bisogna intendersi: qui la forma di organizzazione è la camorra” (pensava forse all’università italiana, Prezzolini?).

Il risvolto di copertina c’informa clangorosamente che il professor Ferraris dirige il “Laboratorio di Ontologia” (purtroppo per l’umanità, la Filosofia e il fisco, non è un refuso di “oncologia”) e che “ha scritto più di cinquanta libri” (nessuno però è un capolavoro, dato che nemmeno il suo editore ne ricorda uno). “Pocas cosas mueren con la rapidez de las ideas y pocos cadáveres inspiran similar indiferencia”, dice Gómez Dávila, ciò è ancor più vero per le ossa dei professori di filosofia – a torto detti dal volgo “filosofi” – che con quelle idee commerciano o tirano a campare.

Marco Lanterna