Ha detto recentemente Philippe Daverio che non c’è più alcuna autorità culturale che vigili sulle “fesserie” (eufemismo) che si pubblicano. In tal modo trovano risonanza (tra le pelli d’asino per tamburi) affermazioni e teorie che fino a non molto tempo fa si sarebbero guadagnate la sottolineatura in blu o in rosso nelle scuole elementari, e che talvolta disgraziatamente assurgono a capisaldi di pensiero dettando legge per decenni. Abbiamo pertanto ritenuto di segnalare con questa rubrica, aperta a tutti, le storture provenienti da “cervelli increspati” (definizione di Anacleto Verrecchia), che condizionano pesantemente il sapere. Il nostro non è un intento di censori o pedanti (sarebbe il colmo parlando del Bruno!) ma una rivisitazione bonaria e ironica per difendere il Bruno, che non può farlo, dagli “insulti” che ancora gli piovono addosso.
Nei casi più lievi ci limiteremo a fare come gli antichi spartani: esporremo sul Monte Taigeto i parti più debolucci, segnalando coloro che vagiscono ancora in età adulta, emettendo un suono fesso.
Nei più gravi, accompagneremo personalmente sin sul bordo della Rupe Tarpea coloro che, in buona o malafede, hanno danneggiato il Bruno, così come facevano gli antichi romani con i traditori. In entrambi i casi, i lettori saranno liberi di scegliere, attraverso un sondaggio, se assolvere, graziare permettendo al pupo di crescere, o dare, tutti insieme, una piccola spinta. Valens AcidaliusQuesta volta, per non essere tacciati di misoginia e di anglofobia, ci occuperemo di un uomo, italiano: Gabriele La Porta.
Scrittore e giornalista, nato nel 1945, “il più longevo dirigente della storia della TV pubblica italiana” (apprendiamo da WP) ha lavorato in Rai per 42 anni; laureato in filosofia, si è subito occupato del Bruno; ha scritto oltre trenta pubblicazioni, ricevuto numerosi premi e ricoperto diverse cattedre. Una garanzia, quindi, e di spessore, sembrerebbe. Qui ci occuperemo dell’opera di Gabriele La Porta uscita nel 1991, giunta alla nona edizione nel 2010 per RCS: Giordano Bruno Vita e avventure di un pericoloso maestro del pensiero. Quando ci si accosta a personaggi di questo calibro, che hanno goduto di una vasta considerazione, normalmente lo si fa con un misto di riverenza e discrezione. Così ci accingiamo con circospezione, con la forchetta del goloso e il coltello del metodo diairetico, ad aprire e osservare l’interno di questo “calzone”, in apparenza appetitoso: infatti, con il suo lavoro di divulgatore Gabriele La Porta intende presentarci la figura del filosofo con dati storici collegati a formare un romanzo. Aperto avidamente il calzone, notiamo con sorpresa che all’interno non c’è mozzarella ma formaggio francese: viene chiamato Roquefort, infatti, un presunto avversario del Bruno alla corte di Enrico III che vuole sottoporlo ad un contraddittorio, al quale Bruno risponde… con borborigmi! Scrive infatti La Porta: Si diffonde per lo stanzone una sorta di musica leggerissima […] Ma chi sta suonando questo sconosciuto strumento? […] De Rocquefort avvicina il capo al ventre del filosofo, poi lo ritira con un guizzo. “E’ lui, sua maestà, è lui” grida con indignazione. E’ un vecchio trucco che Bruno ha imparato all’età di 10 anni da Giovanni Corvino. Consiste nel far risuonare il ventre come una cassa armonica […] una sorta di ventriloquismo musicale. (pagg.19/20). Ci sono state nella storia risposte anche peggiori, ad esempio quella del futuro faraone Amasi al messo del faraone in carica Aprieo: “Arrivato a destinazione, il messo invitò Amasi a ritornare, ma egli (per caso si trovava a cavallo) sollevata una gamba fece udire un suono e ordinò di portare quello ad Aprieo” [1] Da Gabriele La Porta, apprendiamo invece che Bruno è ventriloquo ed ha avuto un maestro di spicco, come si affermava già a pag.13: Le parole del suo primo compagno e maestro di studi, Giovanni da Corvino, erano vere. Bel maestro davvero e precoce, visto che il frate Gianni (14) di cui parla il La Porta divenne tale nel 1572 e ottenne l’insegnamento nel 1607 [2]. Ma ora è un ritratto del Bruno che cattura la nostra attenzione, realizzato seguendo le descrizioni di Bruno fatte da Shakespeare in Pene d’amor perdute (10) e in quali punti? Ma La Porta è convinto che nella commedia del Bardo il protagonista è proprio Giordano Bruno (n.2 pag.162) [3] La nostra sorpresa aumenta leggendo che il filosofo nella cerchia della Corte ha conosciuto il re Enrico III e l’erede al trono, il Delfino (14) e che il figlio del re, il Delfino, è balzato in piedi e corre ad abbracciare il Bruno (22)*. Quale Delfino? Magari l’avesse avuto, il Valois. E ancora, leggiamo in un capitolo (127/133) di un incontro di Bruno con Shakespeare a Londra, dove si descrive il drammaturgo come già famoso mentre, nel periodo del soggiorno inglese del filosofo (apr 1583-ott 1585 [4]), Shakespeare non poteva avere più di venti anni e viveva a Stratford upon Avon. Le “fluttuazioni” temporali si allineano a quelle descrittive in cui si mischiano costantemente ermetismo e magia, misteri, poteri occulti e massoneria; sentiamo ancora una volta il ritornello ripetitivo del “Mago”, stile Danza delle ore, stucchevole se rapportato ai nostri tempi. Si riprende così la Yates: i giordanisti erano presenti in tutte le università dell’epoca come una gigantesca ragnatela che assomiglia a una consorteria di tipo massonico (57). Ovvio che il Bruno avesse dei seguaci, ma sparuti e non in grado di dargli sostegno, come dimostrano i continui allontanamenti del loro maestro dalle università. Ma in quest’opera si alternano stranamente riflessioni interessanti, come quelle sull’importanza dei codici platonici portati a Firenze, con affermazioni gratuite, nomi di fantasia e situazioni strampalate. Questa commistione, (una miscellanea di gusti azzardati e contrastanti, per proseguire con la metafora) fa dubitare anche delle affermazioni corrette e, soprattutto, inganna il lettore non informato. Troppi i personaggi inventati di sana pianta: Martowe con i due doppi spadini alla cintura e Korthx con l’ascia bipenne, (103), ad esempio, sono due commensali di Sidney, e l’ultimo appare come un vichingo medievale. Troppi anche gli svarioni: leggiamo a pag. 103 I cavalieri dell’Ordine della Giarrettiera. Un movimento esoterico che si ispira direttamente alla filosofia di Giordano Bruno. Peccato che l’Ordine sia stato fondato nel medioevo; si legga inoltre, nella Cena delle Ceneri, come gli inglesi trattavano i forestieri, Bruno compreso. A pag.133, l’architetto Inigo Jones (nato nel 1573) viene definito: pittore di Elisabetta e artista che ha creato il mito della grande regina; osserviamo che la Regina era al potere dal 1558 e la sua apoteosi era stata la sconfitta dell’Armata spagnola nel 1588, quando il Jones aveva 15 anni. Poco dopo, nell’incontro del Bruno con Elisabetta (storicamente avvenuto) narrato a pag.117, il filosofo praticamente la ipnotizza (!) suscitandole una visione: l’immagine si fa riconoscere. E’ Maria Stuarda. […] Quel mago, quel sapiente le ha mostrato il futuro della Sanguinaria. Morirà per il taglio della testa. Ma Maria Stuarda non è Maria la Sanguinaria, morta 26 anni prima. E ancora, vediamo una scena di un incontro in carcere dell’inquisitore Bellarmino col Bruno che gli chiede: Ho saputo che si sono sposati Enrico IV e Maria dei Medici, nipote del Granduca di Toscana. Voi che ne pensate? Ma il contratto fu stipulato nel marzo 1600 mentre il famoso banchetto di matrimonio si tenne addirittura nell’ottobre 1600.* Per finire: a pag. 144 si parla del frate Celestino da Verona famoso nel suo convento soltanto per le sue incessanti masturbazioni notturne […] il povero onanista è stato pagato per muovere le accuse e non riesce neppure a salvarsi dalla tortura. Perché il tribunale veneto, per toglierli il difetto, lo farà castrare e poi per non sentirne più i lamenti decide di farlo uccidere annegandolo in una segreta. Curiosità sessuali a parte, e non considerando la prassi della Repubblica Veneta di affogare i condannati a morte nelle acque della laguna, Celestino da Verona fu bruciato vivo, a Roma, il 16 settembre 1599 [5] .* Tralasciamo altri inciampi notando solo due venialità: (pag.96) Substine et abstine dicevano i filosofi di Stoa. I filosofi della Stoa, essendo greci, evidentemente storpiavano il latino che correttamente recita Sustine et abstine; e a pag. 136: Bellarmino si trova ora, in questa mattina del gennaio 1699, refuso evidente che però, dopo dieci edizioni, avrebbe anche potuto essere rilevato. Alla fine, dalla lettura di questo romanzo, pur scritto con entusiasmo, in cui si trova di tutto e di più, emerge una specie di Bruno Potter, del quale non si sentiva la mancanza. Quello che invece manca è il Bruno vero, il filosofo che poteva affermare: “Io nei miei pensieri, parole e gesti non so, non ho, non pretendo altro che sincerità, semplicità, verità”.[6]
[1] Erodoto, Le storie, II, 162
[2] Spampanato, Vita di Giordano Bruno, Aragno 2000, pag.478 e 480
[3] Chi volesse sviscerare l’argomento, almanaccato già dalla Yates, legga Sacrificio e Sovranità di Gilberto Sacerdoti, Einaudi 2002, ma in Love Labour’s Lost (1595) troverà soltanto un’assonanza col nome del personaggio Berowne.
[4] Giovanni Aquilecchia, Giordano Bruno, Aragno 2001, pag.34 e 57
[5] Avviso romano del 17/9/1599 e Luigi Firpo, Il processo di Giordano Bruno, Salerno, 1998 pag,43.
* Ringraziamo il Professor Maurizio Ceccon per queste segnalazioni.
[6] Spaccio della bestia trionfante, Epistola esplicatoria, Dialoghi Sansoni, 551.