Leggere Giordano Bruno in latino, si sa, è un’impresa ardua anche per un esperto latinista; leggerlo in volgare però non è cosa da meno. Il filosofo utilizza notoriamente un periodare complesso e si fa gioco della lingua piegandola a suo uso, con il risultato di rendere ostica la comprensione del testo da parte del lettore moderno. Con questo non si vuol di certo sostenere che chi lo leggesse nel XVI secolo fosse tanto avvantaggiato ma se non altro era più avvezzo a certi vocaboli ed espressioni. Anche per questo il volgare del Bruno ha avuto un impatto decisivo nel campo filosofico-scientifico, aprendo altresì infiniti mondi anche nell’ambito linguistico. Le opere ‘italiane’ oltretutto nascono tali per la grande lungimiranza del nolano, avendo già intuito (come poi farà il Galilei) l’importanza, per la diffusione di un concetto, di abbandonare in alcuni frangenti il latino: maggior consenso e circolazione di idee ne ottenne, e non solo in Italia. Nell’introduzione a questa edizione del Candelaio, Guido del Giudice cita le parole del filosofo estrapolate da un suo intervento a Oxford: “Tutte le scienze traggono giovamento, per la loro diffusione, dall’aiuto delle traduzioni”. Lungimirante due volte dunque il Bruno: la lingua dei dotti per i dotti e le altre per gli innovatori; ecco perché questa edizione penso sarebbe stata ben accetta dall’autore. Naturalmente in questo caso non si tratterà di traduzione essendo l’opera originale già scritta in italiano ma di una sua resa più attuale. Si dedica a questo compito Gianmario Ricchezza, già avvezzo in passato (e con successo) alla complessa operazione, rendendo la prosa originale decisamente più fruibile e scorrevole; ci si stupisce nel leggere questo ‘nuovo’ Candelaio di come tutto risulti facile e attuale, depurato da quegli arabeschi così tanto efficaci per i conoscitori del repertorio linguistico rinascimentale quanto quasi incomprensibili per il distratto e superficiale popolo del web. Sull’opera e sulla sua analisi in particolare si è già detto quasi tutto: basti sapere che la commedia è in cinque atti e si svolge tutta in una sola notte napoletana del 1576, nel pieno rispetto delle classiche unità aristoteliche. Quello che colpisce subito il lettore però è il frontespizio, in cui si dichiara l’opera essere stata scritta da un Academico di nulla Academia, detto il Fastidito, espressione tipicamente bruniana che già ci fornisce la marca di tutto il suo lavoro: nell’estraneità dal pedante mondo accademico sta la sua distinzione; nel suo disgusto verso le convenzioni sta la sua forza di trasgressore, trasgressione – come già ricordato – anche linguistica e rintracciabile fin dal vocabolo finemente ambiguo che dà vita al titolo. Al di là dell’intreccio, nel quale il tempo, l’amore e la cupidigia fanno da temi portanti, la cosa che colpisce è la mancanza di quel lieto fine tanto atteso nella maggior parte delle opere di siffatta natura e già preannunciato dall’etichetta stessa di commedia. Con il Candelaio si sviluppa una indagine, come quella che il Machiavelli fece con la sua Mandragola, sulla natura umana dipingendo il mondo qual è senza pregiudizi né falsi buonismi. E anche per questo l’opera fu inserita – insieme a tutte le altre del Bruno, non lo si dimentichi – nell’indice dei libri proibiti nel 1602. Una nota tecnica su questa edizione: il testo della commedia è corredato da rimandi esplicativi in appendice, utili per sanare lacune su termini specifici o fatti storici ma che possono essere tralasciati senza perdere la godibilità della lettura. L’intenzione dei curatori non è stata infatti quella di editare una versione per gli addetti ai lavori con riferimenti bibliografici in nota e approfondimenti critici ma, una volta tanto, per tutti. Non spaventi dunque leggere il nome di Giordano Bruno in copertina; anzi, lo si legga senza remore e pregiudizi in questa godibilissima versione che, oltretutto, rappresenta il punto di partenza per la pubblicazione di tutte e sette le opere italiane del Bruno a cura della Di Renzo Editore.
Manta, 9 ottobre 2022