“Ma Giordano Bruno non è un tabù” – di Anna Foa “Corriere della sera”- giovedì 01 settembre 2005

Il rogo di Giordano Bruno si è spento da oltre quattrocento anni. Pensiamo ancora che ci sia bisogno di difenderne la memoria a spada tratta, trattando come malfattori quanti non si prosternano davanti al suo altare? O non è meglio lasciare che, accanto al rigore meritorio di chi cura e commenta le edizioni delle sue opere, ci possa anche essere spazio per quanti cercano di reinserire la storia della sua fortuna, e della sua memoria, nella storia? Nemmeno il testo biblico ha difensori tanto rigidi nel sottrarlo alle traversie della storia. Sembra infatti che in Italia solo Bruno resti un’ icona intangibile.
Ecco quindi uno studioso di grande rigore, Nuccio Ordine, che (sul Corriere del 30 agosto scorso) scende in campo con la lancia in resta contro due articoli apparsi sul Foglio (del 18 e 25 agosto) di Francesco Agnoli, dove appoggiandosi con notevole rozzezza a una bibliografia degna di rispetto (il Giordano Bruno e la tradizione ermetica di Frances A. Yates e l’opera di John Bossy, che attribuisce a Bruno un’azione di spionaggio a favore di Elisabetta d’ Inghilterra) l’ autore proclama che Bruno non era un grande filosofo, e che la sua fama è dovuta solo al rogo. Ed ecco che, per ribadire la sua difesa di Bruno, Ordine tira in ballo, molto a sproposito, direi, dal momento che non condivido nulla delle tesi di Agnoli, un mio libretto di alcuni anni fa (Giordano Bruno, il Mulino), in cui avevo delineato una storia della «fortuna», potremmo dire, del pensiero di Bruno in Italia e di come il pensiero liberale italiano abbia costruito una memoria bruniana del tutto funzionale alla costruzione dell’identità italiana.

Personalmente, credo che questa costruzione in chiave risorgimentale sia stata un’operazione del tutto legittima, che ha riportato Bruno fuori dall’ oblio in cui lo avevano collocato la sua condanna e l’azione di censura dell’ Indice, oltre che le preferenze culturali del Sei-Settecento, ostili in genere all’intera tradizione platonica e inclini a occultarla. L’interesse per questo problema era nato in me al margine di uno studio su Pierre Bayle, in cui mi colpì l’astio con cui veniva trattato Giordano Bruno nel suo Dictionnaire.

Di qui, la voglia di dipanare alcuni fili non filosofici, ma puramente di storia della cultura. Tutto questo è stato visto all’epoca, e continua a essere visto, come una bieca operazione revisionistica, volta a negare dignità filosofica al filosofo di Nola, e per di più in nome di presunte ragioni religiose. Come storica, diverso era il problema che mi ero posta, e continuo a credere che sia un problema legittimo. Come lettrice (e non essendo una filosofa, come lettrice comune), mi sono cari i suoi scritti e amo la sua reinvenzione modernissima dell’infinità dei mondi.
Dopo aver fatto per tanto tempo storia dei fatti, noi storici, è noto, ci siamo messi a fare storia di fenomeni più evanescenti: delle emozioni, delle percezioni, delle false notizie, fino ad arrivare, negli ultimi decenni, a essere particolarmente attratti dalla storia della memoria, dal modo cioè in cui la memoria storica si è codificata, stratificata, creata. Di come si è selezionata, a quali norme ha obbedito la selezione. Moltissimi sono stati così gli studi dedicati all’uso pubblico della memoria e della storia, alla costruzione delle varie memorie. Perfino la costruzione della memoria della Shoah in Israele è stata materia di analisi critica in un bellissimo libro dello storico israeliano Tom Segev (anch’egli accusato, è vero, di essere un revisionista iconoclasta). Resto dell’opinione che, per la Shoah come per Bruno, cercare le domande che stanno dietro i percorsi delle memorie sia un’ operazione, per uno storico, non solo legittima ma perfino doverosa.

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