“Bruno, la Filosofia oltre il rogo”

“Ci fu in un. tempo distante . secoli un uomo che visse per la Verità e per il libero pensiero, che s’interrogava sul tempo e sulla vita e su quel Qualcosa che la vita inonda in ogni istante. Fu arso al rogo nel 1600, ma le sue domande risuonano ancora”

Giovedì 17 febbraio 1600 a Roma, in Campo de’ Fiori, all’ angolo con Via dei Balestrari, si brucia un uomo. Tutt’intorno si celebra un grande giubileo, che distribuisce per­dono e comprensione per tutti. La legna avvolge e consuma il corpo di un ex frate di san Domenico, Giordano Bruno da NoIa, “eretico pertinace” che sale al rogo non volendo ascoltare neppure un confortatore. Continua ad affascinare la vicenda umana e teoretica di quel «piccolo uomo dalla nera barbetta», che ci ha portato i suoi scritti dal Monte Cicala, presso Nola, «a imparar littere de humanità, logica e dialettica», la sua figura silenziosa, che parla di un orgoglio intellettuale mai sopito. Occorre ancora investigare l’anima del Nolano, bruciante di passione per la ricerca filosofica, unico strumento d’indagine dei “mondi infiniti” e sola strada dell’ umana cogitazione, slacciata finalmente dalle catene di fede e di teologia, categorie queste di cui Bruno preferì non occuparsi. Volle essere, e fu, solo un Filosofo. Genio assoluto e vita ribelle.

Quello “sciupafemmine”

Jacopo Corbinelli in una lettera lo dipinge «piacevol compagnietto, epicuro per la vita» e Indro Montanelli (Corriere della Sera del 5 febbraio 2000) definì Bruno uno «sciupafemmine». In realtà, il Nolano temeva solo di «essere spogliato dall’umana perfezione e giustizia». La Vita e la Natura furono per il Nolano il pronao di ogni verità; con ogni energia Bruno combatté la pedanteria e i nemici della libera investigazione «dell’infinito effetto dell’infinita causa». Seppe atterrare le porte di diamante della diffusa superstizione e cercò la Verità, che era, per lui, la cosa più divina di tutte.
Nella dedica alla signora Morgana, nel Candelaio, aveva scritto: «Ricordatevi, Signora, di quel che credo non bisogna insegnarvi: Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno e può perseverare eternamente uno, simile e medesmo. Con questa filosofia l’animo mi s’aggrandisce, e me si magnifica l’intelletto. Però qualunque sii il punto di questa sera ch’aspetto, si la mutazione è vera, io che sono ne la notte, aspetto il giorno, e ‘quei che son nel giorno, aspettano la notte: tutto quel ch’è, o è qua o llà, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi. Godete dunque, e, si possete, state sana, ed amate chi v’ama». Tra le molte questioni ch’egli trattò «con le maniche rimboccate, a mò di giocoliere», la sua concezione dell’universo infinito rovesciò la teoria geocentrica della Chiesa, anticipando il pensiero eliocentrico di Niccolò Copernico. Il panteismo bruniano fondò una teleologia immanente, essendo la Natura causa, legge e finalità a se stessa. In tutto c’è Vita: nell’universo come nella monade, come nell’individuo è contenuta la specie, la nazione, l’umanità.

Bestemmia e vomita insolenze

L’ «Academico di nulla Academia» portò la sua bisaccia di cuoio, carica di libri e di destino, per le migliori università europee, insegnando a confutare i lacci aristotelici, per rivendicare l’ assoluta libertà di pensiero e la forza della filosofia, che riscalda il cuore e lo avvicina alla Verità, unico oggetto della Poesia, altrimenti sterile esercizio di parole vane. Nel Candelaio così Bruno si era descritto al lettore-spettatore: «Per lo più il vedrete fastidito, restio e bizzarro: non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d’ottant’anni, fantastico come un cane ch’ha ricevute mille spellicciate». E nel sonetto Al malcontento, che apre i cinque dialoghi della Cena delle Ceneri, aveva scritto: «Non morder, se non sai s’è pane o pietra». Ritenne sempre che la fede servisse solo per istruire i rozzi popoli, e così le chiese. Altrove, nello Spaccio de la bestia trionfante, diede corso alla più radicale critica al cristianesimo prima di Friedrich W. Nietzsche. È certo, a ogni modo, che la sua filosofia lavò il capo al povero Aristotele. Guardando i suoi giudici, mentre veniva annotato che il Filosofo «alza le fiche al cielo e vomita insolenze», pronunziò parole che gelarono il sangue dei tunicati: «Avete più paura voi nel giudicarmi, che io nel ricevere la condanna».  Bruno pagò questa coerenza filosofica con l’effusione del sangue, forse rivolgendo l’ultimo pensiero a Morgana, sicuramente sapendo che avrebbe superato le ceneri dell’Inquisizione e le condanne dell’Indice per ripresentarsi, misteriosa domanda infinita, secoli dopo, al cuore e all’intelligenza di un maestro come Giovanni Gentile, che per primo ne collocò il genuino pensiero nell’ arbor philosophorum di tutti i tempi. La vita di Bruno fu tragicamente bella. Come ha scritto Anacleto Verrecchia: «Egli visse ciò che pensò e pensò ciò che visse». Al pari degli antichi greci, Bruno ritenne indecoroso vivere sulla filosofia, anziché per la filosofia. Ma il Nolano fu anche un ingenuo, uno spirito che si fidò di gente mediocre e visse sempre in mezzo alle tempeste. Sprezzò i risuolatori di coscienze che fino all’ultimo istante gl’intimavano il ravvedimento. Spinto dal demone che gli urgeva dentro, ebbe solo il suo ingegno per stupire la vecchia Europa. E vi riuscì. Una falena che si bruciò alla luce del suo ideale.

«Quel che viviamo è un punto»

Definì le guerre di religione «pestifera Erinni»; le attraversò tutte, ma l’ultima, in casa, gli fu fatale. Era una dannata guerra: ragione contro dogma. Non cercò l’utile, ma la Verità. Più tardi, ormai è accertato, Johann W. Goethe lo prenderà a modello del suo Faust. Era nato postumo, e il suo tempo non glielo perdonò. Gli orecchi dell’epoca, pieni di cerume scolastico, non intesero la sua musica nuova. Si preferì trebbiare paglia vuota. Bruno fu soprattutto un uomo riconoscente con i pochi che seppero e vollero aiutarlo. Nel De gl’heroici furori aveva annotato la difficoltà di cercare febbrilmente un senso da dare ai giorni: «Cossì il sursum corda non è intonato a tutti, ma a quelli ch’anno l’ali. […]Quel che abbiamo vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel che abbiamo ancora a vivere non è ancora un punto, ma può essere un punto, il quale insieme sarà e sarà stato». In una delle più riuscite “autobiografie” di Bruno, Eugen Drewermann (Giordano Bruno. Il filosofo che morì per la libertà dello spirito, Rizzoli, Milano 2000), ha scritto: «In me vedete un uomo libero. La verità Voi la conoscete? Io no. Io so solo che ho conservato le mie angosce per il mondo, e posso dire in tutta onestà: non sono mai stato tanto presuntuoso da confondere la mia angoscia con Dio. Al contrario, ho imparato a superare la mia angoscia di fronte al mondo attraverso una fiducia in qualcosa che non ho mai visto, e che tuttavia certamente non ha mai riso di me. È questo che chiamate Dio? Se esiste, è forse il mio unico lettore». La sua storia, come un’aquila, s’aggira ancora inquieta per il mondo. E parla di una Filosofia fattasi carne, che mordacchia e legna accannata da stoltezza non sono riuscite a tacitare.

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