L’astronomo americano Richard W. Pogge nel 1999 scrisse una tesina dall’eloquente titolo The folly of Giordano Bruno nella quale sosteneva che Bruno non fosse altro che un picchiatello. All’epoca non l’avevo neanche preso in considerazione, come non avrei considerato una tesi che avesse sostenuto che Michelangelo fosse soltanto uno scalpellino. Ma passano i lustri ed eccolo ancora lì in internet, ridanciano e trionfante nelle sue asserzioni e addirittura coperto da Copyright! Allora, infastidito dalla petulante litania, che non proviene da un bischero qualunque ma da un famoso titolare di cattedra, l’ho voluto sottoporre ad opportuna spulciatura. Non è la prima volta che Bruno viene trattato da pazzacone, come si usava dire: accuse di quel genere, colme di acredine e livore, gli erano già state mosse nel 1583 da George Abbot, un ecclesiastico che, ascoltando il filosofo a Oxford, tra altri argomenti di sicuro molto validi intellettualmente, come quello sulla scarsa statura dell’oratore, aveva scritto: egli intraprese il tentativo di far stare in piedi l’opinione di Copernico, per cui la terra gira e i cieli stanno fermi; mentre, in realtà, era piuttosto la sua testa che girava e il suo cervello che non stava fermo . Ma se l’astio a priori poteva essere giustificato in un risuolatore di coscienze del Rinascimento, è curioso ritrovarlo oggi, dopo il lungo fluire del tempo che avrebbe dovuto portare quanto meno a prudenza, se non a saggezza. Evidentemente lo scrutatore celeste si ritiene in diritto di discettare anche al di fuori delle sue conoscenze, altrimenti non darebbe del folle al più grande filosofo italiano, rischiando oltretutto di fare la figura di Orlando sulla luna. Ma tant’è, viviamo in un’epoca di revisionismi operati da chiunque si affacci su un palcoscenico, spesso gonfio di arroganza pari all’ignoranza. Nella tesina, stucchevole come una Danza delle ore di Ponchielli fuori tempo, compaiono inoltre alcuni svarioni, ripetuti: come il nome del Bruno, Fillipo (sic) e l’anno della sua estradizione a Roma, 1592 (in realtà 1593), nonché la doppia indicazione di Campo di Fiore. Il professore se la prende col Bruno perché non era un astronomo e dimostrava secondo lui (che può avvalersi di quattro secoli di innumerevoli osservazioni altrui e di giganteschi strumenti) scarsa conoscenza dell’astronomia. Lo accusa anche di aver tratto alcune sue tesi dagli scritti di un matematico e astronomo inglese Thomas Digges, pubblicati in inglese nel 1576. Lo considera pertanto come una persona che si sovrastimava e presentava l’indubbio marchio di follia. Sufficit. Come tutti sanno, Bruno si dichiarò sempre e unicamente filosofo e, avvalendosi solo della sua mente, andò ben oltre le concezioni di Copernico e anche del Digges, che, al contrario del Copernico, rimase limitato alla sua epoca. Col tempo, sono state riconosciute come geniali alcune osservazioni del Bruno perfino in campo astronomico, come quella che le stelle appaiono fisse a causa della loro grande distanza . Ma è alla fine del suo saggio che il professore dà il meglio: fu solo un caso, sostiene, se il Bruno diventò famoso e non rimase una semplice nota in un testo sul 1500, perché, giocando d’azzardo, azzeccò il cavallo vincente, vale a dire quella che nel tempo si sarebbe rivelata come la realtà dei fatti. Così conclude, sarcasticamente, che la storia è divertente in questo. Complimenti professore, davvero divertente.
Gianmario Ricchezza