Ha detto recentemente Philippe Daverio che non c’è più alcuna autorità culturale che vigili sulle “fesserie” (eufemismo) che si pubblicano. In tal modo trovano risonanza (tra le pelli d’asino per tamburi) affermazioni e teorie che fino a non molto tempo fa si sarebbero guadagnate la sottolineatura in blu o in rosso nelle scuole elementari, e che talvolta disgraziatamente assurgono a capisaldi di pensiero dettando legge per decenni. Abbiamo pertanto ritenuto di segnalare con questa rubrica, aperta a tutti, le storture provenienti da “cervelli increspati” (definizione di Anacleto Verrecchia), che condizionano pesantemente il sapere. Il nostro non è un intento di censori o pedanti (sarebbe il colmo parlando del Bruno!) ma una rivisitazione bonaria e ironica per difendere il Bruno, che non può farlo, dagli “insulti” che ancora gli piovono addosso.
Nei casi più lievi ci limiteremo a fare come gli antichi spartani: esporremo sul Monte Taigeto i parti più debolucci, segnalando coloro che vagiscono ancora in età adulta, emettendo un suono fesso.
Nei più gravi, accompagneremo personalmente sin sul bordo della Rupe Tarpea coloro che, in buona o malafede, hanno danneggiato il Bruno, così come facevano gli antichi romani con i traditori. In entrambi i casi, i lettori saranno liberi di scegliere, attraverso un sondaggio, se assolvere, graziare permettendo al pupo di crescere, o dare, tutti insieme, una piccola spinta. Valens AcidaliusQuesta volta, per non essere tacciati di misoginia e di anglofobia, ci occuperemo di un uomo, italiano: Gabriele La Porta.
Scrittore e giornalista, nato nel 1945, “il più longevo dirigente della storia della TV pubblica italiana” (apprendiamo da WP) ha lavorato in Rai per 42 anni; laureato in filosofia, si è subito occupato del Bruno; ha scritto oltre trenta pubblicazioni, ricevuto numerosi premi e ricoperto diverse cattedre. Una garanzia, quindi, e di spessore, sembrerebbe. Qui ci occuperemo dell’opera di Gabriele La Porta uscita nel 1991, giunta alla nona edizione nel 2010 per RCS: Giordano Bruno Vita e avventure di un pericoloso maestro del pensiero. Quando ci si accosta a personaggi di questo calibro, che hanno goduto di una vasta considerazione, normalmente lo si fa con un misto di riverenza e discrezione. Così ci accingiamo con circospezione, con la forchetta del goloso e il coltello del metodo diairetico, ad aprire e osservare l’interno di questo “calzone”, in apparenza appetitoso: infatti, con il suo lavoro di divulgatore Gabriele La Porta intende presentarci la figura del filosofo con dati storici
collegati a formare un romanzo. Aperto avidamente il calzone, notiamo con sorpresa che all’interno non c’è mozzarella ma formaggio francese: viene chiamato Roquefort, infatti, un presunto avversario del Bruno alla corte di Enrico III che vuole sottoporlo ad un contraddittorio, al quale Bruno risponde… con borborigmi! Scrive infatti La Porta: Si diffonde per lo stanzone una sorta di musica leggerissima […] Ma chi sta suonando questo sconosciuto strumento? […] De Rocquefort avvicina il capo al ventre del filosofo, poi lo ritira con un guizzo. “E’ lui, sua maestà, è lui” grida con indignazione. E’ un vecchio trucco che Bruno ha imparato all’età di 10 anni da Giovanni Corvino. Consiste nel far risuonare il ventre come una cassa armonica […] una sorta di ventriloquismo musicale. (pagg.19/20). Ci sono state nella storia risposte anche peggiori, ad esempio quella del futuro faraone Amasi al messo del faraone in carica Aprieo: “Arrivato a destinazione, il messo invitò Amasi a ritornare, ma egli (per caso si trovava a cavallo) sollevata una gamba fece udire un suono e ordinò di portare quello ad Aprieo” [1] Da Gabriele La Porta, apprendiamo invece che Bruno è ventriloquo ed ha avuto un maestro di spicco, come si affermava già a pag.13: Le parole del suo primo compagno e maestro di studi, Giovanni da Corvino, erano vere. Bel maestro davvero e precoce, visto che il frate Gianni (14) di cui parla il La Porta divenne tale nel 1572 e ottenne l’insegnamento nel 1607 [2]. Ma ora è un ritratto del Bruno che cattura la nostra attenzione, realizzato seguendo le descrizioni di Bruno fatte da Shakespeare in Pene d’amor perdute (10) e in quali punti? Ma La Porta è convinto che nella commedia del Bardo il protagonista è proprio Giordano Bruno (n.2 pag.162) [3] La nostra sorpresa aumenta leggendo che il filosofo nella cerchia della Corte ha conosciuto il re Enrico III e l’erede al trono, il Delfino (14) e che il figlio del re, il Delfino, è balzato in piedi e corre ad abbracciare il Bruno (22)*. Quale Delfino? Magari l’avesse avuto, il Valois. E ancora, leggiamo in un capitolo (127/133) di un incontro di Bruno con Shakespeare a Londra, dove si descrive il drammaturgo come già famoso mentre, nel periodo del soggiorno inglese del filosofo (apr 1583-ott 1585 [4]), Shakespeare non poteva avere più di venti anni e viveva a Stratford upon Avon. Le “fluttuazioni” temporali si allineano a quelle descrittive in cui si mischiano costantemente ermetismo e magia, misteri, poteri occulti e massoneria; sentiamo ancora una volta il ritornello ripetitivo del “Mago”, stile Danza delle ore, stucchevole se rapportato ai nostri tempi. Si riprende così la Yates: i giordanisti erano presenti in tutte le università dell’epoca come una gigantesca ragnatela che assomiglia a una consorteria di tipo massonico (57). Ovvio che il Bruno avesse dei seguaci, ma sparuti e non in grado di dargli sostegno, come dimostrano i continui allontanamenti del loro maestro dalle università. Ma in quest’opera si alternano stranamente riflessioni interessanti, come quelle sull’importanza dei codici platonici portati a Firenze, con affermazioni gratuite, nomi di fantasia e situazioni strampalate. Questa commistione, (una miscellanea di gusti azzardati e contrastanti, per proseguire con la metafora) fa dubitare anche delle affermazioni corrette e, soprattutto, inganna il lettore non informato. Troppi i personaggi inventati di sana pianta: Martowe con i due doppi spadini alla cintura e Korthx con l’ascia bipenne, (103), ad esempio, sono due commensali di Sidney, e l’ultimo appare come un vichingo medievale. Troppi anche gli svarioni: leggiamo a pag. 103 I cavalieri dell’Ordine della Giarrettiera. Un movimento esoterico che si ispira direttamente alla filosofia di Giordano Bruno. Peccato che l’Ordine sia stato fondato nel medioevo; si legga inoltre, nella Cena delle Ceneri, come gli inglesi trattavano i forestieri, Bruno compreso. A pag.133, l’architetto Inigo Jones (nato nel 1573) viene definito: pittore di Elisabetta e artista che ha creato il mito della grande regina; osserviamo che la Regina era al potere dal 1558 e la sua apoteosi era stata la sconfitta dell’Armata spagnola nel 1588, quando il Jones aveva 15 anni. Poco dopo, nell’incontro del Bruno con Elisabetta (storicamente avvenuto) narrato a pag.117, il filosofo praticamente la ipnotizza (!) suscitandole una visione: l’immagine si fa riconoscere. E’ Maria Stuarda. […] Quel mago, quel sapiente le ha mostrato il futuro della Sanguinaria. Morirà per il taglio della testa. Ma Maria Stuarda non è Maria la Sanguinaria, morta 26 anni prima. E ancora, vediamo una scena di un incontro in carcere dell’inquisitore Bellarmino col Bruno che gli chiede: Ho saputo che si sono sposati Enrico IV e Maria dei Medici, nipote del Granduca di Toscana. Voi che ne pensate? Ma il contratto fu stipulato nel marzo 1600 mentre il famoso banchetto di matrimonio si tenne addirittura nell’ottobre 1600.* Per finire: a pag. 144 si parla del frate Celestino da Verona famoso nel suo convento soltanto per le sue incessanti masturbazioni notturne […] il povero onanista è stato pagato per muovere le accuse e non riesce neppure a salvarsi dalla tortura. Perché il tribunale veneto, per toglierli il difetto, lo farà castrare e poi per non sentirne più i lamenti decide di farlo uccidere annegandolo in una segreta. Curiosità sessuali a parte, e non considerando la prassi della Repubblica Veneta di affogare i condannati a morte nelle acque della laguna, Celestino da Verona fu bruciato vivo, a Roma, il 16 settembre 1599 [5] .* Tralasciamo altri inciampi notando solo due venialità: (pag.96) Substine et abstine dicevano i filosofi di Stoa. I filosofi della Stoa, essendo greci, evidentemente storpiavano il latino che correttamente recita Sustine et abstine; e a pag. 136: Bellarmino si trova ora, in questa mattina del gennaio 1699, refuso evidente che però, dopo dieci edizioni, avrebbe anche potuto essere rilevato. Alla fine, dalla lettura di questo romanzo, pur scritto con entusiasmo, in cui si trova di tutto e di più, emerge una specie di Bruno Potter, del quale non si sentiva la mancanza. Quello che invece manca è il Bruno vero, il filosofo che poteva affermare: “Io nei miei pensieri, parole e gesti non so, non ho, non pretendo altro che sincerità, semplicità, verità”.[6]
[1] Erodoto, Le storie, II, 162
[2] Spampanato, Vita di Giordano Bruno, Aragno 2000, pag.478 e 480
[3] Chi volesse sviscerare l’argomento, almanaccato già dalla Yates, legga Sacrificio e Sovranità di Gilberto Sacerdoti, Einaudi 2002, ma in Love Labour’s Lost (1595) troverà soltanto un’assonanza col nome del personaggio Berowne.
[4] Giovanni Aquilecchia, Giordano Bruno, Aragno 2001, pag.34 e 57
[5] Avviso romano del 17/9/1599 e Luigi Firpo, Il processo di Giordano Bruno, Salerno, 1998 pag,43.
* Ringraziamo il Professor Maurizio Ceccon per queste segnalazioni.
[6] Spaccio della bestia trionfante, Epistola esplicatoria, Dialoghi Sansoni, 551.
Mordacchia
Karen Silvia de Leon-Jones
Ha detto recentemente Philippe Daverio che non c’è più alcuna autorità culturale che vigili sulle “fesserie” (eufemismo) che si pubblicano. In tal modo trovano risonanza (tra le pelli d’asino per tamburi) affermazioni e teorie che fino a non molto tempo fa si sarebbero guadagnate la sottolineatura in blu o in rosso nelle scuole elementari, e che talvolta disgraziatamente assurgono a capisaldi di pensiero dettando legge per decenni. Abbiamo pertanto ritenuto di segnalare con questa rubrica, aperta a tutti, le storture provenienti da “cervelli increspati” (definizione di Anacleto Verrecchia), che condizionano pesantemente il sapere. Il nostro non è un intento di censori o pedanti (sarebbe il colmo parlando del Bruno!) ma una rivisitazione bonaria e ironica per difendere il Bruno, che non può farlo, dagli “insulti” che ancora gli piovono addosso.
Nei casi più lievi ci limiteremo a fare come gli antichi spartani: esporremo sul Monte Taigeto i parti più debolucci, segnalando coloro che vagiscono ancora in età adulta, emettendo un suono fesso.
Nei più gravi, accompagneremo personalmente sin sul bordo della Rupe Tarpea coloro che, in buona o malafede, hanno danneggiato il Bruno, così come facevano gli antichi romani con i traditori. In entrambi i casi, i lettori saranno liberi di scegliere, attraverso un sondaggio, se assolvere, graziare permettendo al pupo di crescere, o dare, tutti insieme, una piccola spinta. Valens AcidaliusPrendiamo in esame un’altra delle etichette appiccicate al Bruno in tempi recenti, quasi si trattasse di un vaso di unguenti in una farmacia antica: Bruno cabalista.
Ne parla diffusamente nella sua opera, Giordano Bruno and the Kabbalah*, Karen Silvia de León-Jones. Questa ricercatrice in studi religiosi pur arrivando alla conclusione che Bruno non è cabalista nel senso più stretto del termine (q1) e che non etichetterà Bruno come cabalista (q2), cade tuttavia nell’errore di esaminare la Cabala del cavallo pegaseo con l’aggiunta dell’asino cillenico, il libro più divertente e satirico del Bruno, con estrema serietà. Ma non è la sola: anche alcuni che lei indica come suoi maestri cadono in questo equivoco. Bruno diceva ironicamente degli eruditi ricchi di sfoggio e poveri di comprensione: “Come dimostrano bene che essi sono gli unici a cui Saturno ha pisciato il giudizio in testa”**. L’irresistibile gioco di parole bruniano: “…eccovi Cabala, Teologia e Filosofia, dico una Cabala di filosofia teologica, una Filosofia di teologia cabalistica, una Teologia di cabala filosofica”…***, diventa secondo la studiosa una inseparabile triade, un legame teologico-filosofico per includere la cabala (pag.9), un sistema, filosofico, teologico, ermeneutico del quale Bruno si serve come espediente ermeneutico per introdurre e spiegare le sue teorie personali (q3); e lo sconosciuto dedicatario dell’operetta ironica,
Don Sapatino, risulta il simbolo dell’unione fondamentale dei tre concetti (pag.24).
L’errore interpretativo mette in ombra anche alcune osservazioni interessanti dell’autrice (ad esempio sull’uso da parte del Bruno di termini cabalistici quali “indumenti” e “dimensioni”, pag.36/37), e genera altri errori, come considerare un’altra divertente frase dell’Epistola dedicatoria della Cabala un usare la tradizionale dicotomia aristotelica (ndr. fisica e metafisica) ad indicare che un filosofo non è diverso da un teologo o cabalista e viceversa (q4), esattamente il contrario di quanto il Bruno volle rivendicare anche a costo della vita: la libertà di essere filosofo.
La mancata accordatura del suo strumento impedisce all’autrice, sin dalle prime pagine, di sentire le dissonanze a cui la portano obbligatoriamente le note false che ne ricava. Se non si sanno riprodurre le note giuste non si può fare musica. Sarebbe assurdo, ad esempio, voler analizzare il Dizionario Filosofico di Voltaire prendendone il testo paradossale in modo serio. Così seguono contraddizioni e incomprensioni: a dispetto del suo voler considerare il Bruno come un nuovo profeta, la de León-Jones si vede costretta a riconoscere che il tono della interpretazione del Bruno non è particolarmente profetico (q5), che il Bruno tuttavia complica la faccenda (q6) tanto che i suoi confini filosofici sono talvolta difficili da distinguere (q7); ed è logico, perchè se le premesse sono errate, le conclusioni risultano, nel caso migliore, comiche. Esempi: Bruno utilizza l’immagine dell’asino per rappresentare metaforicamente la mistica (q8) e l’affermazione che La cabala e l’asino è esattamente quello che il titolo richiama, un dialogo di sovrastrutture cosmologiche (q9), un superciuccio insomma.
La de León-Jones sostiene di aver approfondito l’interpretazione dell’asino della Yates, più semplice, in quanto incapace di cogliere gli aspetti cabalistici inerenti al simbolo (q10) e rileva che Cabala è esattamente quello che il titolo pretende di essere, un trattato di cabala (q11). Peccato che il Bruno aggiunse alla Cabala del cavallo pegaseo il testo ancor più paradossale de L’asino cillenico.
Povero Bruno! Si riferì probabilmente a quel suo divertissement quando dichiarò al processo veneto (II costituto del 30 maggio 1592): “ho alcune opere composte da me e date alla stampa, le quali non approvo”, temendo che le sue idee fossero travisate.
Conclusione. Una riflessione generica, che non riguarda la de León-Jones: col flusso di immondizie culturali che ci sono pervenute sin dagli anni cinquanta dagli Stati Uniti, abbiamo conosciuto vari tipi di superuomini: l’impiegato volante, il pipistrello, il ragno, la formica. Non abbiamo bisogno del superasino: di quello ce ne siamo già accorti noi da tempo.
Alla nostra studiosa di religione e teologia consigliamo una bella boccata di aria fresca, accompagnandola gentilmente in gita sul Monte Taigeto.* Giordano Bruno and the Kabbalah, Yale University Press, 1997, ediz. First Nebraska 2004.
** Il Candelaio, edizione Excelsior1881, Milano, 2008, Proprologo pag.35.
*** La cabala e l’asino, Excelsior1881, Milano, 2010, pag.29.
q1 Bruno is not a Kabbalistic in the strictest sens of word (pag.181)
q2 I will not label Bruno as a Kabbalist (id.)
q3 In the dialogue Cabala Bruno uses the Kabbalah as a hermeneutic device to introduce and
explicate his own theories (20)
q4 Taking the traditional Aristotelian dichotomy to mean that a philosopher is not different than
a theologian or Kabbalist, or vice versa (24)
q5 The tone of Bruno interpretation is not particularly prophetic (182)
q6 Bruno however complicates the matter (112)
q7 The philosophical boundaries are sometimes difficult to distinguish (84)
q8 Bruno utilizes the image of the Ass to metaphorically represent the mystic (27)
q9 A dialogue of cosmological superstructures (21)
q10 Yates offers a simpler interpretation of the symbol of the Ass, for she is unable to perceive
the Kabbalistic aspects inherent the symbol (20)
q11 His dialogue Cabala is exacting what its title claims to be: a work of Kabbalah (17).
Su una curiosa “Bibliografia bruniana 2001-2010″
Giordano chiama il pane, pane; il vino, vino…ha la dottrina per dottrina, le imposture per imposture…stima gli filosofi per filosofi, gli pedanti per pedanti.
di Guido del Giudice
L’ennesimo spunto per un’amara riflessione sul mondo accademico me l’offre stavolta la pubblicazione, in appendice ad un volume di atti congressuali, di una “Bibliografia bruniana dal 2001 al 2010” curata da Maria Elena Severini. Si tratta di un lungo elenco in cui figurano, senza nessun criterio selettivo, una gran quantità di lavori pubblicati in questi anni. O meglio un criterio selettivo c’è: eliminare tutti gli scritti di Guido del Giudice! Perfino dalla sezione “Opere”, in cui sono raccolte le poche traduzioni di opere bruniane pubblicate nel periodo, sono state espurgate unicamente le quattro traduzioni inedite realizzate dal sottoscritto. Avrei fatto volentieri a meno di evidenziarlo, primo per non dare risalto ad un lavoro di cui nessuno si sarebbe altrimenti accorto e, secondo, per non dare l’impressione di una ripicca. Il problema serio però non è questo, bensì l’evidenza delle punte di degrado raggiunte in Italia dagli studi universitari e da coloro che li gestiscono. Mi dite che valore può avere per lo studioso moderno una bibliografia che riporti soltanto gli autori graditi all’apparato di potere universitario? Ha senso che l’accademia per “difendersi” dall’emergere di nuovi, più acuti e dinamici ricercatori, finga di ignorarne l’esistenza anziché riconoscerne i meriti o anche solo confutarne i risultati? A Maria Elena Severini, “curatrice” della bibliografia, vorrei dire due parole. E’ già mortificante che a una ricercatrice in Studi Umanistici venga assegnato il compito di compilare una bibliografia del genere: un lavoro che oggi anche un bambino, con un PC a disposizione, riuscirebbe a fare meglio in dieci minuti. Ma addirittura piegarsi al diktat di colui che le ha conferito il dottorato (indovinate di chi si tratta? Ma dell’ineffabile Michele Ciliberto naturalmente!) di eliminare tutte le opere di un determinato autore “sgradito” è il colmo dell’umiliazione. Vuol dire non riconoscerle nessuna autonomia intellettuale, oltre a manifestare un assoluto disprezzo per le Sue capacità. Ora, voglio anche capire che Lei abbia scelto di sottomettersi al sistema, nella speranza di ottenere un giorno una cattedra di insegnamento, come accaduto in passato a tante altre “collaboratrici”, ma quando quel giorno verrà, quale obiettività, quale rigore intellettuale trasmetterà ai suoi allievi? Cosa gli insegnerà? A discriminare i vari autori in base all’asservimento al sistema? A screditare i “nemici” di carriera? A plagiare le opere altrui, sostituendo qualche frase qua e là e pubblicandole come proprie? Insomma quello che le ha insegnato in questi anni il suo “maestro”? Che pena! E lo dico con sincero dolore, augurandomi che queste mie parole l’aiutino a recuperare un minimo di orgoglio intellettuale. Che i miei testi non siano presenti nella Sua bibliografia è cosa per la quale, francamente, non mi strappo i capelli. Anzi, mi onora saperli nell’ Index librorum prohibitorum, accanto agli originali del grande Nolano! La Sua bibliografia resterà in un polveroso scaffale, i miei libri continueranno a diffondere il verbo bruniano ovunque vi sia fame di vera conoscenza, e per fortuna ce n’è tanta nonostante voialtri. Potete scrivere all’infinito che nel 2009 è stata pubblicata una traduzione del Camoeracensis Acrotismus, ma tutti sanno che si basa sulla prima pubblicata da me un anno prima col titolo “La disputa di Cambrai”. Potete nascondere la mia traduzione delle due “Orationes” e quella dei quattro dialoghi su Mordente, ma chi ha voglia di conoscenza e vuole leggerle le troverà lo stesso. Per non parlare della Somma dei termini metafisici, la cui traduzione, attraverso le scoperte sui rapporti tra Bruno e i Rosacroce, ha aperto un nuovo, importante filone di ricerca, che sta dando frutti interessanti, ispirando scrittori, studiosi e perfino registi cinematografici. Tutto ciò non lo cancellerete certo con queste patetiche bassezze, che rivelano soltanto rabbia impotente. Il “peggio che Lerneo mostro” della vostra pedanteria è capace soltanto di distruggere, di imbrattare con il guano di una cinica ottusità tutto ciò che non riesce a sfruttare. Ecco che Gerardo Marotta vi accusa di aver portato alla rovina l’Istituto Studi filosofici, ecco che tanti giovani, promettenti intelletti si perdono per essersi rifiutati di sacrificare anche la magra soddisfazione di compilare un elenco di libri, ma di farlo almeno in modo completo e imparziale. E il guaio maggiore è che son cose che tutti sanno e nessuno dice. La “Casta degli accademici” è una delle poche ad essere finora sfuggita alla frusta dei moderni Savonarola. Come mai i Travaglio, gli Stella non hanno ancora osato pubblicare uno dei loro corposi dossier sulle “porcate” di questa casta?. Eppure di materiale ne avrebbero a iosa. Quello in mio possesso l’ho pubblicato in rete a più riprese ma, a parte qualche moto di sorpresa più che di sdegno, non ha avuto seguito. Quanto ai giornali manco a parlarne: i rapporti economico politici con costoro a livello editoriale sconsigliano qualsiasi attacco. E allora? Io continuo nel mio donchisciottesco impegno, con i limitati mezzi del mio sito e dei social network, tra i “Chi te lo fa fare?” e i “Perché ce l’hai con loro?”, sostenuto soltanto da chi ha subito le loro angherie e chi si ostina ad aver fiducia nell’avvento della meritocrazia intellettuale. Ma soprattutto da chi crede con sincerità nell’insegnamento e nell’esempio, fermo ed inequivocabile, che ci ha trasmesso il grande filosofo Nolano.
XIV Premio Cimitile: Un’altra occasione persa!
Giordano chiama il pane, pane; il vino, vino…ha la dottrina per dottrina, le imposture per imposture…stima gli filosofi per filosofi, gli pedanti per pedanti.
di Guido del Giudice
Sono anni ormai che vado predicando l’opportunità di inserire, nell’ambito del Premio Cimitile, prestigiosa manifestazione di primo livello nel panorama letterario nazionale, una sezione dedicata a Giordano Bruno. Come in tutti i concorsi letterari, sappiamo bene che la scelta e l’assegnazione dei premi risponde a rigide norme spartitorie tra le principali case editrici, ma è mai possibile che in una manifestazione che si svolge nell’agro Nolano e che ogni anno ricorda la figura del filosofo, inserendo nel suo programma un simposio a lui dedicato, non sia previsto un riconoscimento per gli autori di libri che lo riguardano? Se è previsto un premio per la migliore opera edita di arte paleocristiana, senza offesa per l’importanza e il numero relativamente esiguo di cultori della materia, a maggior ragione dovrebbe esistere una sezione per i libri “bruniani”. Sarebbe, a mio parere, un ulteriore fiore all’occhiello per la manifestazione e l’occasione buona per celebrare, sul principale palcoscenico culturale dell’area Nolana, il suo celebre figlio.
Invece, niente da fare! Si continua anche qui la miope spartizione tra politici e accademici di second’ordine. Anche quest’anno ci si dovrà sorbire le acrobazie verbali dei soliti noti, alle prese questa volta con un opinabile confronto Bruno-Vico. Nessuna apertura alle forze giovani, nessuna apertura all’originalità, alla preparazione specifica. Questa, signori, è la cultura che vi propinano oggi. Tenetevela cara! Io più che denunciare la situazione, mettendomi contro tutto e contro tutti, non posso fare. Ciò che dà fastidio è quella sorta di superficiale relativismo, con cui ci propongono, senza alcuna preparazione, sostenendoli sempre con gli stessi argomenti triti e ritriti, i temi più banali e improbabili, presumendo che nessuno ci capisca nulla, come loro. Questo perché i programmi vengono stilati da perfetti ignoranti, gente che della filosofia di Bruno non sa un bel niente (e lo dico a ragion veduta per aver avuto la possibilità di interrogarli in merito) e dirige fondazioni, comitati, parchi e chi più ne ha più ne metta! Ma la cosa che fa ancora più male è che studiosi anche abbastanza preparati e onesti intellettualmente, si facciano strumentalizzare da costoro in nome di uno sterile presenzialismo. Si bada soltanto a tener lontani i veri conoscitori della materia, i quali potrebbero dare dei contributi validi e un impulso efficace alla discussione, per non vedere oscurata la loro effimera voglia di protagonismo.
“Nemici miei: ultimo atto”
“Non vorrei intanto che, come in tempo d’inondazione, gli stronzi degli asini dissero ai dorati frutti:”Siamo anche noi pomi che galleggiamo”, così a qualunque stolto o asino sia lecito ragliare all’indirizzo dei nostri argomenti, presentati qui o altrove, in questo o in altro modo”.
di Guido del Giudice
Non è certo un caso che, in concomitanza con la morte di Gerardo Marotta, e il conseguente scoppio della guerra di successione alla guida dell’Istituto Studi Filosofici, il gruppo di Nuccio Ordine pubblichi a firma di Roberto Bondì, un nuovo attacco alla paranza nemica di Palazzo Strozzi. Il vecchio cartello “aquilecchiano” si è evidentemente ricompattato, per dare l’assalto a ciò che resta del glorioso istituto napoletano. E’ comparso, infatti, on-line un articolo dall’eloquente titolo: “Il monumento di Giordano Bruno a Michele Ciliberto” (chi fosse interessato può leggere direttamente lo scritto a questo link). Si tratta dell’ennesima puntata della fiction, iniziata nel 2000, sulla spartizione dei finanziamenti per il 4° centenario del rogo. Tra vendette personali e accuse di plagio (l’armamentario solito delle faide accademiche) lo scontro portò alla formazione dei due gruppi rivali, facenti capo a Michele Ciliberto e Nuccio Ordine. La squallida lotta di potere politico-accademica si è trascinata in questi anni, con i due contendenti che hanno utilizzato senza scrupoli i mezzi a propria disposizione (testate giornalistiche, riviste letterarie, istituzioni culturali e politiche). Non è il caso di ripetere qui tutta la storia: chi mi segue da tempo sa di cosa parlo. Ho già avuto modo di esprimere il mio giudizio sull’operazione “enciclopedia bruniana”. L’idea di sistematizzare, con una metodologia di tipo illuministico, un pensatore la cui grandezza risiede nell’intuizione e nella visione istintiva, può nascere soltanto dalla consueta pretesa di imprimere un sigillo di possesso, da parte di pedanti avvezzi a tener distinto il lessico dal pensiero. Perciò non entro nel merito delle contestazioni mosse a Ciliberto in questo nuovo articolo, anche se esse mi sembrano talmente pretestuose da ispirare fastidio anche quando colgono nel segno. Il Ciuccio rimprovera al Mulo di avere le orecchie troppo lunghe! E’ francamente paradossale che gli “aquilecchiani” fingano di scandalizzarsi perché quelli della loro fazione non sono stati citati nell’opera, quando da 15 anni entrambe le parti applicano la congiura del silenzio nei confronti del sottoscritto. Per carità, si può non essere d’accordo con le mie interpretazioni, criticare le mie traduzioni, mettere in dubbio le mie scoperte, ma è assolutamente impossibile o disonesto fingere d’ignorarne l’esistenza. E questi, con la faccia come il…lato B, si lamentano di non essere stati citati! Ma per cosa? Cosa hanno prodotto di veramente innovativo su Bruno in questi anni? Se avessero realizzato la centesima parte di quel che ho fatto io, avrebbero stampato decine di saggi, pubblicato centinaia di recensioni su riviste letterarie e giornali. E si meravigliano che l’ enciclopedia non citi il nome di qualcuno dei firmatari del manifesto anti-Ciliberto del 2000 o che, in risposta alle critiche rivolte al “pensiero unico cilibertiano”, il partito del califfo di Palazzo Strozzi metta in evidenza che l’unico contributo di Nuccio Ordine all’ecdotica Bruniana è un saggio sull’asinità pubblicato 30 anni fa e che perfino il titolo della sua autobiografia, “L’utilità dell’inutile”, è plagiato dal testo del filosofo francese Thierry Paquot. Dal canto suo, nel 2010 Ciliberto fece realizzare ad una sua allieva una bibliografia bruniana aggiornata, in cui erano stati inseriti, a bella posta, lavori di cani e porci, tranne i miei. Nemmeno quelli per i quali lo stesso Ciliberto aveva scritto la prefazione, prima che, avendo dato fastidio alla casta, decretasse il mio rogo “in effigie” (chi vuole può leggere il mio commento a quella porcata). Cosa ancor più ridicola, schiere di professorucoli di second’ordine, di mezze calzette allevate negli scantinati delle università, aizzati dai loro padroni, si sentono in diritto di emettere giudizi su cose che nemmeno conoscono. Addirittura uno di questi, che pure ha avuto la fortuna, senza trarne purtroppo alcun profitto, di essere allievo di un galantuomo come Aniello Montano, invitato ad un convegno qualche anno fa, accettò a patto che non ci fossi io! Evidentemente temono di essere svergognati, dopo che li ho sfidati più volte a pubblica disputa. Con questa gente meglio averci a che fare il meno possibile! Sono “quei mercanti di cattedre prezzolati dallo Stato”, di cui parlava Schopenhauer, “i quali debbono vivere sulla filosofia con moglie e figli, e la cui parola d’ordine è quindi primum vivere deinde philosophari, mercanti che di conseguenza hanno preso possesso della piazza e già si sono presi cura che quivi nulla abbia valore se non quanto essi fanno valere, e che quindi esistono meriti solo in quanto piaccia a loro e alla loro mediocrità di riconoscerli”. Costoro non vogliono ammettere di essere stati ormai superati dalla storia. Oggi devono rendere conto ad un pubblico molto più vasto di quello rinchiuso e sfruttato nelle aule universitarie. Ricerca, studi e pubblicazioni rimangono fondamentali, ma essi sono ormai accessibili ad un pubblico molto più vasto e preparato, che chiede di essere guidato, illuminato, e non passivamente indottrinato. La crociata del Nolano contro l’ ”abitudine a credere” è stata vinta, ma costoro ancora non se ne sono accorti! Chi si ostina a non capire che il web, i social, con tutti i loro difetti (e sapete bene come io mi batta contro i pericoli della falsa informazione), costituiscono il nuovo palcoscenico su cui anche la filosofia deve confrontarsi, vive fuori dal mondo. Meglio i convegni-passerella con decine di presunti esperti bruniani cinesi o giapponesi o le centinaia di appassionati che hanno commentato il 17 febbraio le mie pagine, esprimendo attivamente il loro sentimento? Purtroppo la bestia tricipite accademia-politica-editoria continua a riproporre stancamente ogni anno sempre le stesse cose, sempre le stesse facce, che ripetono sempre lo stesso copione. Sono quelli che già Giordano Bruno aveva caratterizzato come “sordidi e mercenari ingegni, che, poco o niente solleciti circa la verità, si contentano saper, secondo che comunemente è stimato il sapere, amici poco di vera sapienza, bramosi di fama e reputazion di quella, vaghi d’apparire, poco curiosi d’essere”.
John Bossy
Ha detto recentemente Philippe Daverio che non c’è più alcuna autorità culturale che vigili sulle “fesserie” (eufemismo) che si pubblicano. In tal modo trovano risonanza (tra le pelli d’asino per tamburi) affermazioni e teorie che fino a non molto tempo fa si sarebbero guadagnate la sottolineatura in blu o in rosso nelle scuole elementari, e che talvolta disgraziatamente assurgono a capisaldi di pensiero dettando legge per decenni. Abbiamo pertanto ritenuto di segnalare con questa rubrica, aperta a tutti, le storture provenienti da “cervelli increspati” (definizione di Anacleto Verrecchia), che condizionano pesantemente il sapere. Il nostro non è un intento di censori o pedanti (sarebbe il colmo parlando del Bruno!) ma una rivisitazione bonaria e ironica per difendere il Bruno, che non può farlo, dagli “insulti” che ancora gli piovono addosso.
Nei casi più lievi ci limiteremo a fare come gli antichi spartani: esporremo sul Monte Taigeto i parti più debolucci, segnalando coloro che vagiscono ancora in età adulta, emettendo un suono fesso.
Nei più gravi, accompagneremo personalmente sin sul bordo della Rupe Tarpea coloro che, in buona o malafede, hanno danneggiato il Bruno, così come facevano gli antichi romani con i traditori. In entrambi i casi, i lettori saranno liberi di scegliere, attraverso un sondaggio, se assolvere, graziare permettendo al pupo di crescere, o dare, tutti insieme, una piccola spinta. Valens AcidaliusJohn Bossy
York, Inghilterra settentrionale. Proiettori illuminano i resti spettrali di un castello che si stagliano contro il cielo nero. Si ode il crócido di alcuni corvi che fuggono le tenebre incipienti. Dalle luci salgono vapori che si agitano nell’aria come fantasmi. Passi solitari echeggiano sul lastricato di un’antica stradina mentre, dal buio che avvolge le case in pietra, sembra emergere un oscuro figuro incappucciato; dal mantello aperto proviene un luccichio rivelando la presenza di una croce. All’improvviso, una mano impugna la croce e ne cava la lama terribile di uno stiletto! Un’apparizione, certo, ma in questa cittadina le gelide sere autunnali possono generare potenti fantasie. A York è nato, nel 1933, il docente di storia John Bossy che, nel suo libro Giordano Bruno e il mistero dell’ambasciata ° ha costruito una teoria che farebbe del Bruno nientemeno che una perfida spia, dalla risata sarcastica. Calandosi tra antiche carte ingiallite, emergenti da polverosi archivi, ha rinvenuto numerosi documenti sulle attività di spionaggio nel ‘500. Ma cerchiamo di fare un piccolo riassunto scusandoci per le inevitabili approssimazioni. Alla fine di marzo del 1583 Bruno si era recato dall’ambasciatore inglese a Parigi (aveva chiesto un visto, diremmo oggi) che ne aveva preavvisato l’arrivo al segretario e capo della sicurezza della Regina, Francis Walsingham, in termini non certo lusinghieri, presentandolo come «un professore di filosofia la cui religione non posso raccomandare». Era giunto a Londra ad aprile inoltrato, trovando alloggio nell’ambasciata di Francia grazie alle credenziali che Enrico III gli aveva concesso. Il periodo è tra i più intricati, per la lotta tra cattolici e riformati, i continui spostamenti di fronte e di alleanze, gli intrighi per il potere all’interno della Corte di Elisabetta I, sempre impegnata a tenere a bada i pretendenti. In questo guazzabuglio, Bossy ritiene di poter identificare l’autore di alcune informative di spionaggio in Giordano Bruno, che a Londra non aveva certo tenuto una condotta defilata, come ci si aspetterebbe da una spia, ma era riuscito ad agitare ancor più le acque intorno alla sua persona.
Il professore, con la tesi Bruno=spia crea un fuoco d’artificio, in tutti i sensi, con botti e vampate che formano una Sinfonia fantastica in cui il direttore d’orchestra perde spesso di vista la partitura, con risultati paradossali. Ma lasciamo la parola all’inglese. Il 20 aprile 1583 arrivò sulla scrivania di Sir Francis Walsingham il primo di una serie di interessanti messaggi… da un certo Henry Fagot (pag.33). Altra lettera segue la settimana dopo ed il solerte professore, analizzando i testi, rileva che l’autore non era francese… penso che sia piuttosto facile dimostrare che Fagot era un italiano… cade in italianismi e l’unica altra lingua della quale dà prova di subire l’influenza è lo spagnolo (36). Afferma poi che il nostro uomo era un prete: in lettere successive lo troviamo mentre ascolta una confessione, discute con il successivo ambasciatore delle sue esperienze di sacerdote a Londra (37). Basterebbe questa osservazione per tagliare la testa al… prete, perché sappiamo che il Bruno, spretato da tempo (e la cosa era nota), non avrebbe potuto dir messa o confessare senza incorrere in gravi conseguenze; mentre sappiamo che all’Ambasciata francese, come del resto in quella spagnola, vi erano già dei religiosi per officiare; lo stesso Bossy ci informa (37) che in una lettera del Duca d’Angiò a Elisabetta, sicuramente non posteriore al 1582 (ben prima quindi dell’arrivo del Bruno), si parla di “un piccolo prete di Mauvissiere” (l’ambasciatore Castelnau). Ma troppa è la fregola dell’autore per la presunta scoperta di supposti altarini del Bruno per non seguitare a deliziarci con spericolate deduzioni.
L’ambasciata francese assomigliava parecchio al nostro odierno parlamento, frequentata com’era da molti personaggi che facevano dell’intrigo la loro professione; tra i principali: William Fawler, scozzese, sedicente protestante ma al soldo dei francesi, William Herle, che lavorava per Castelnau, Francis Throckmorton, congiurato poi scoperto e decapitato dalla Regina, l’ambiguo Lord cattolico Henry Howard, molto inquietante già in effigie (a pag.145). Tra i residenti, il pretino e il segretario; afferma Bossy: non c’era dubbio che il segretario (Nicolas Leclerc seigneur de Courcelles) era diventato una talpa al servizio di Walsingham e Fagot poteva vantare il merito di averlo reclutato (39); secondo l’equazione Fagot=Bruno dobbiamo fare i complimenti al filosofo per il tempo brevissimo (pochi giorni) impiegato a inserirsi nell’ambiente e a reclutare spie, anche di rango. Il resto del personale dell’ambasciata non era da meno, quanto a intrallazzi, seppure dilettanteschi: secondo il Bossy, trafficavano in arredi sacri, libri e armi, il cantiniere, uno dei cuochi, lo spedizioniere e il portinaio. Ci viene il sospetto che anche i chierichetti, durante le messe, non si limitassero a stare ginocchioni ma comunicassero informazioni con i loro suffumigi, in stile pellerossa. In questo gioco di “chi spia chi” però è il Bruno, secondo il Bossy, a essere il migliore, per la sua funambolica duplicità e bravura; talmente bravo, osserviamo noi, che, alla fine della fiera, invece di ricavare soldi e onori dalla Regina, nel settembre 1585 viene imbarcato per scaduto gradimento insieme al Castelnau e rimandato senza troppi complimenti in Francia, dove avrebbe potuto correre il rischio di essere decapitato.
Sul filo delle intricate vicende relative alla ambasciata, Bossy, ritenendo di avere il bandolo della matassa, si aggroviglia ancora di più: Il problema che sorge dai documenti (ndr: dalle informative del Fagot) consiste nel fatto che Fagot e Bruno scrivevano con due calligrafie completamente diverse (103), ma poiché Bruno scriveva in almeno tre differenti calligrafie non dobbiamo stupirci che quando scriveva sotto il nome di Fagot fosse diversa (105). Il numero delle calligrafie, che si moltiplicano, non gli pone problemi, anche quando si trova davanti ad una missiva diversa, scritta parte in francese e parte in italiano: Siccome abbiamo già cinque differenti calligrafie del Bruno, comprese le due del Fagot (notare la logica) e tutte abbastanza diverse, non sembrerà molto difficile ipotizzarne una sesta (108). Anche se deve ammettere che i brani in italiano sono esecrabili e a giudicare dalle apparenze è inconcepibile siano stati scritti da un italiano… l’autore può quindi essere uno spagnolo (109) ciò lo porta a concludere che Fagot faceva ogni sforzo, a costo di cadere nel ridicolo, pur di dissimulare che la sua lingua madre era l’italiano (115).
Ma nel ridicolo ci casca a volte l’autore, come quando, parlando del mercoledì delle Ceneri, ha una visione in cui Bruno cosparse di cenere la fronte dei membri dell’assemblea e ricordò loro che erano polvere (134) o quando effettua voli a dir poco pindarici: E’ possibile, benché del tutto improbabile, che Bruno non conoscesse la differenza tra le dottrine di Lutero e Calvino; è però più probabile che ritenesse impossibile insegnarle in modo tale che le masse ignoranti potessero scorgervi una differenza (182); e aggiunge, diciamolo, onestamente: Arrivato a questo punto il lettore ha forse perso la pazienza (183), esattamente quello che è capitato a noi, che, parafrasandolo, osserviamo: é probabile, oltreché possibile, che l’autore qui batta i coperchi ed è improbabile, oltreché impossibile, che riesca a capirci qualcosa; come risulta dalla seguente affermazione: Tutto quello che Bruno scrisse di sé e quasi tutte le sue affermazioni autobiografiche, che sono state annotate, – ne sono quasi sicuro – devono essere considerate frutto di invenzione: sia i suoi scritti pubblicati che le sue apparizioni davanti agli inquisitori erano le rappresentazioni pubbliche, teatrali, di un personaggio nato dalla fantasia (169). Alla faccia dello Spampanato e di tutte le fonti storiche in generale.
Concludendo. L’unico elemento, secondo noi, che potrebbe avvicinare il Bruno al Fagot è l’ambivalenza della firma della spia: infatti compter fagots nel francese dell’epoca significava “contar frottole” e in inglese faggot (pronunzia fagot) “individuo spregevole”; la denominazione potrebbe essere stata appioppata al prete, alle cui messe presenziava, dallo stesso Bruno o dal suo amico John Florio.
John Bossy però qualche merito ce l’ha: ha individuato, riteniamo definitivamente, la collocazione dell’ambasciata in Salisbury Court; ha portato alla luce una interessante corrispondenza di spionaggio; non ha avuto una influenza nefasta come altri “esperti” del Bruno e risulta spesso divertente. Ci limitiamo pertanto a proporne l’esposizione alle raffiche di vento del Monte Taigeto, che gli rinfreschino le cellule grigie.
Ai lettori il giudizio finale.
° Garzanti Editore, 1992. A questa edizione si riferiscono le numerazioni delle pagine da cui sono tratte le citazioni riportate in corsivo.
Frances Amelia Yates
Ha detto recentemente Philippe Daverio che non c’è più alcuna autorità culturale che vigili sulle “fesserie” (eufemismo) che si pubblicano. In tal modo trovano risonanza (tra le pelli d’asino per tamburi) affermazioni e teorie che fino a non molto tempo fa si sarebbero guadagnate la sottolineatura in blu o in rosso nelle scuole elementari, e che talvolta disgraziatamente assurgono a capisaldi di pensiero dettando legge per decenni. Abbiamo pertanto ritenuto di segnalare con questa rubrica, aperta a tutti, le storture provenienti da “cervelli increspati” (definizione di Anacleto Verrecchia), che condizionano pesantemente il sapere. Il nostro non è un intento di censori o pedanti (sarebbe il colmo parlando del Bruno!) ma una rivisitazione bonaria e ironica per difendere il Bruno, che non può farlo, dagli “insulti” che ancora gli piovono addosso.
Nei casi più lievi ci limiteremo a fare come gli antichi spartani: esporremo sul Monte Taigeto i parti più debolucci, segnalando coloro che vagiscono ancora in età adulta, emettendo un suono fesso.
Nei più gravi, accompagneremo personalmente sin sul bordo della Rupe Tarpea coloro che, in buona o malafede, hanno danneggiato il Bruno, così come facevano gli antichi romani con i traditori. In entrambi i casi, i lettori saranno liberi di scegliere, attraverso un sondaggio, se assolvere, graziare permettendo al pupo di crescere, o dare, tutti insieme, una piccola spinta. Valens AcidaliusFrances Amelia Yates
Cominciamo con l’occuparci di Frances Yates (1899/1981) autentico “mostro sacro” degli studi sul Rinascimento, intendendo l’espressione nel senso latino: monstrum = qualcosa che appare al di fuori della consuetudine, che si rivela; sacer = ciò che è consacrato agli dei e diventa oggetto di culto. Che la ricercatrice inglese sia stata (e lo è ancora a volte) oggetto di culto non ci sono dubbi. Sarebbe ingeneroso non riconoscere i suoi contributi allo studio della tradizione ermetica e altri spunti originali (saccheggiati da tanti epigoni senza citarla), come quelli su John Florio e su una possibile raffigurazione del Bruno da parte di Shakespeare nell’opera Pene d’amor perdute. Purtroppo, però, l’ostinazione della Yates nel voler inquadrare il Bruno in un telaio sghembo senza averlo compreso, ha portato a decenni di fraintendimenti e ritardi negli studi. Che non abbia compreso il Bruno non siamo noi a dirlo ma lei. Nella sua autobiografia, incompiuta (rileviamo per inciso che neanche Schopenhauer ha mai ritenuto di scrivere una autobiografia), racconta: (1931) Come tutti gli altri studenti del tempo, non avevo la più pallida idea riguardo al pensiero rinascimentale (pag.207); e la studiosa, onestamente, giudica che nello studio sul Florio (scritto due anni prima) i passi dedicati al Bruno sono molto immaturi (206); così, parlando dello studio sull’opera di Shakespeare (1936), ammette che la Yates di quei tempi non sa quasi nulla circa Giordano Bruno (214), e “in quei tempi” ha l’età di 37 anni; ma, improvvisamente, dalla lettura della Cena delle Ceneri, le arriva l’illuminazione: Quel curioso testo, con la sua illuminata accettazione di Copernico, non sembrava affatto ciò che ci si aspetta da un filosofo appena sbucato dal medioevo (215/6); in effetti, “appena sbucati” dal medioevo, non ci si può aspettare un Rinascimento. A questo punto, colpita dalle “stranezze” del Bruno, invece di pensare che possa trattarsi di uno spirito non confinabile nella sua epoca (come sono i geni) inquieta perché sente che qualcosa non le quadra, cerca di trovare una chiave per ricacciare il filosofo nel medioevo, dal quale usciva sfrontatamente, e la trova nella magia. Da quel momento, quasi ogni pagina della Yates si compiace di abbinare il nome del Bruno alla categoria magica (semplificata per di più nel nostro generico senso moderno) rovesciando in banalità la gigantesca e solitaria lotta del Bruno contro l’ignoranza. Intendiamoci: che quei tempi fossero intrisi di superstizioni è chiaro, basta leggere Agrippa, citato varie volte dal Bruno; ma lo sono ancora i tempi nostri, dove l’ignoranza dilaga ad ogni livello e gli imbroglioni alla Edward Kelley si sprecano, riuscendo a vendere a caro prezzo chili di sale “miracoloso” a poveracci creduloni. Riconosciamo inoltre alla Yates la buona fede e gli interessanti risultati conseguiti nel rintracciare una tradizione ermetica. Ma non si può affermare che La filosofia e la religione sono in Bruno una stessa cosa ed entrambe di tipo ermetico (113), riducendo il pensatore a un vaneggiatore e sconfessando le stesse parole del Bruno con la sua suprema rivendicazione di voler parlare da filosofo e non da religioso! Neanche la Chiesa arrivò a tanto: non contestò al Bruno idee e comportamenti da mago, avendo compreso che era molto più pericoloso come pensatore autonomo e rivendicatore di una libertà dai suoi condizionamenti; la inglese invece scrive: è molto probabile che egli sia stato arso vivo come mago (108). E scivola nelle inesattezze: La religione “egiziana” di Bruno includeva la credenza nella metempsicosi, che egli trasse ugualmente dagli scritti ermetici (110), la trasse invece da Pitagora – lo dice lui – e Platone. Tante osservazioni utili vengono oscurate dalla lettura superficiale del filosofo da lei forzato in uno schema preconfezionato, per cui la Cena delle Ceneri diventa: una cena mistica che sfugge alla definizione razionale (35); Questa cena è piena a tal punto di elementi confusi … che è meglio considerarla alla stregua di una descrizione magica e allusiva (279). Non va meglio con la Cabala del cavallo pegaseo, della quale afferma: mostra l’adattamento che Bruno fa della cabala ebraica (106); e, sempre con serafica incomprensione: L’asino di questi dialoghi, ci viene detto, è lo stesso che la bestia dello Spaccio, che ancora una volta riassume il suo posto e ruolo nei cieli. Non ho mai trovato una spiegazione soddisfacente di questo problema (131). Abbondano le affermazioni spericolate, del tipo: Che la disputa sulla teoria copernicana sia anche una disputa sulla Messa può essere finalmente dimostrato dalla seguente citazione (36) e cita il divertente passo del Bruno nella Cena, di risposta alla domanda dell’inglese Torquato su dove si trovasse l’auge del sole (sopra il campanile di San Paolo risponde il filosofo) che è di grande ironia, da lei nemmeno intravista. La vede, invece, a modo suo: La satira di Bruno è naturalmente impregnata di una forma mistica e cabalistica che richiama astruse opere sull’occultismo e sulla magia (132). Non capire quando Bruno è ironico, o sarcastico, rivela che lo studioso è limitato, e porta a prendere solenni cantonate. Altra affermazione quanto meno curiosa della Yates: L’insistenza del Bruno sul fatto … che la teoria copernicana non è semplicemente una formula vuota, è la traduzione in termini filosofici della sua visione del Sacramento altamente mistica e di fatto magica (38). Tutto viene ricondotto alla magia, persino il fatto che Bruno inveisca contro i pedanti grammatici, incapaci di comprendere le superiori attività del mago (183). E nella sarabanda dell’Apprendista stregone viene coinvolto anche il povero Tommaso Moro; scrive infatti la Yates: Secondo me, c’è una influenza ermetica in questa descrizione della religione praticata dai più saggi abitanti di Utopia (208); si salva, per fortuna, il miglior amico del Moro, Erasmo: Nel clima erasmiano la magia non avrebbe potuto far conto sulla fiducia, o sulla credulità, che sono tanto necessarie al suo successo. Ed anche Erasmo, nelle sue lettere, scrive spesso di non dare alcun peso alla cabala (186). Perché mai allora avrebbe dovuto dar peso a magia e cabala il Bruno che venerava e citava Erasmo? Questo la Yates non se lo chiese, restando arroccata sulle sue idee, né fece attenzione alle stroncature feroci della magia intesa in senso popolare che il Bruno fa nel Candelaio; men che meno notò l’analisi, lucida e moderna, dei vari tipi di magia fatta dal Bruno nel De Magia (ma l’avrà letta?).
A questo punto, dopo aver soppesato pregi e difetti della Yates; tenuto conto dell’influenza che ha esercitato su tanti che ne hanno accolto acriticamente il pensiero; aver constatato che ha segnato pesantemente la nostra epoca, che già tende a considerare più furbetto solo chi è nato dopo e a compiacersi della inversione dei valori, indichiamo il sentiero che porta in cima alla rupe.
Nota: le citazioni sono tratte dalle opere: 1) Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, Laterza, 2006, che è una raccolta di nove saggi dal 1938 al 1981, le cui pagine sono indicate in corsivo; 2) Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza 2004 (uscita a Londra nel 1964) le cui pagine sono indicate in carattere normale.
Giordano Bruno e l’Incertezza dell’Elogio
Giordano chiama il pane, pane; il vino, vino…ha la dottrina per dottrina, le imposture per imposture…stima gli filosofi per filosofi, gli pedanti per pedanti.
di Roberto Amabile da ilmeridiano.net – Note su Nola e la Biennale Bruniana
NOLA – Si è svolta tra il 15 e il 19 aprile l’anteprima della “Biennale Bruniana“, un crogiolo di eventi che ha coinvolto e continuerà a coinvolgere filosofi, filologi, studenti e uomini di cultura italiani e non, ammaliati da un ascendente del tutto singolare: il più grande intellettuale che queste terre abbiano mai potuto dare alla luce.
Filippo Bruno, poi Giordano, suo nome domenicano, fu un pensatore d’eccezione nel panorama non solo nazionale, ma mondiale, talché gli esperti stranieri hanno imparato l’italiano per leggerne in lingua le opere. L’etichetta di “pensatore”, però, non gli si addice, tale la sua portata: fu filosofo, teologo, maestro di mnemonica, prosatore e poeta, filologo, commediografo, astronomo; ma nemmeno in questo modo – sia detto – si avrebbe una ben chiara idea di quale innovazione sia portavoce Bruno. Risulta impresa ardua, e onde evitare una banalizzazione del suo pensiero, non ne si darà una definizione globale (perfino definirlo “neoplatonico” ne minimizza la complessità). Poco male, come direbbe Bruno: «A chi è concesso il meritare, sii [NdR: “sia”] negato l’avere; a chi è concesso l’avere, sii negato il meritare». Ovvero, secondo un’interpretazione del tutto particolare, un intellettuale a cui calza bene un’etichetta probabilmente non ne merita, sarà un intellettuale di poco conto. Chi però tra uno slalom lessicale e l’altro non si sentirà mai “definito”, probabilmente sarà un vero pensatore a cui è scherno, offesa, ingiuria appioppare tre o quattro parole. Questa considerazione dovrebbe far riflettere su quanto siano futili le classificazioni di “uomini magni”. E Bruno si configura come uno di questi, uomo dal multiforme ingegno qual era.
Uno degli aspetti più importanti della produzione bruniana, che merita indubbiamente l’attenzione ai giorni nostri (attenzione che non ha affatto avuto durante l'”anteprima di Biennale”) è proprio il motivo per cui Bruno è stato arso a Roma nel 1600. Il Nolano si fece portavoce di una radicale riforma morale contro l’ignoranza e l’inettitudine dei tempi, all’insegna dell’esercizio critico della propria razionalità – senza dogmatismi di sorta – e di un approccio pragmatico alla realtà supportato dall’attiva concretizzazione dei risultati raggiunti. In tal senso Bruno può definirsi teorico della pratica e pratico della teoria, un vero e proprio rivoluzionario del modo di pensare e di fare.
La rivoluzione bruniana, troppo spregiudicata per i tempi, fu vista come un vero e proprio atto di terrorismo contro il potere costituito, sia quello cosiddetto “spirituale”, di vescovi e cardinali, che quello “temporale”, di prìncipi e regnanti. Infatti Bruno non fu messo al rogo perché si sospettarono eterodossie dal dogma, bensì perché il Nolano «non ritrattò i termini della [sua] filosofia», che sarebbe significato essenzialmente rinnegarla.
Questa filosofia tuttora appare perniciosa per la comunità, una filosofia che sembra comportare solo – nei migliori dei casi – pedanterie e – nei peggiori – intolleranze, da parte di chi ne segue le linee guida, e ci si appella al ritorno ai veri valori, i valori della tradizione e del passato, fortuitamente incontaminati dal divenire del tempo… Chi mal sopportava le innovazioni – in particolare quelle “minacciose” del Nolano (che sono innovazioni per due volte) – ha fatto acuta opera di travisamento, ha interpretato in un’ottica distorta le tesi bruniane e ha convinto le masse della bontà di questa interpretazione; così da un lato si evita che tesi progressiste e dilaniatrici del passato prendano piede nella comunità, e dall’altro si propaganda in che modo il potere costituito abbia ancora una volta salvato la stessa comunità da una sciagura che non avrebbe minimamente desiderato: talché è diventato di moda scagliarsi contro il “relativismo imperante”, poiché ha distrutto le certezze dell’uomo e l’ha fatto precipitare in un baratro senza fondo di infinite verità – tutte esatte e al contempo contraddittorie -, e apostrofare simili considerazioni con frasi del tipo: «si stava meglio quando si stava peggio», cioè quando la verità era “cattolica”, come la stessa radice del termine ci suggerisce: dal greco: καθολικός, ovvero universale. Un punto di vista universale prevede: la totale omologazione di pensiero e azione, che non permette libertà se non nell’eterodossia; l’indiscutibilità assoluta del canone, che per quanto possa essere “perfetto” rivela nella sua pretesa di perfezione una pecca, dunque un elemento discutibile, poiché anche gli uomini ispirati da pantheon interi di divinità, in quanto uomini, possono cadere in errore, e laddove il raziocinio supportato dallo studio suggerisce di infrangere i canoni, ci si dovrebbe rifugiare solo nell’eresia; il totalitarismo, ovvero violenza fisica e psicologica, ostracismo, esilio.
Bisogna abbandonare l’idea di un unico punto di vista, di una verità assoluta, di un credo indiscutibile. Il canone a cui l’uomo dovrebbe fare appello è un canone falsificabile, un sistema di valori che ha il coraggio di rinnovarsi continuamente e mai fossilizzarsi su tesi obsolete, una moralità che faccia costantemente tesoro delle sue tesi avverse.
Ancor di più, però, devo dirvi: è stata un’immensa delusione per chi è nolano di nascita assistere non ad una grave omissione, ma allo scempio dettato dalle logiche di mercato della figura bruniana. Salvo particolari conferenze e interventi interessanti come quelli di Massimo Capaccioli (Università “Federico II” di Napoli) o di Stefano Levi Della Torre (Comunità ebraica di Milano) [NdR: invitato di sabato, cioè quando chi professa l’ebraismo è noto che non può partecipare a convegni; ma, per fortuna, Levi Della Torre non crede in quei precetti], l’entusiasmo degli studiosi stranieri che hanno partecipato alla manifestazione, le rappresentazioni teatrali a tema e i concerti d’orchestra, non vi sono stati notevoli arricchimenti. Ciò che più stordisce è stato l’intervento di Michele Mezza (Presidente della “Fondazione Giordano Bruno”) al L.S.S. “Enrico Medi” di Cicciano, che si fa bene a sospettarlo ripetuto in altre scuole: con rocamboleschi cambi di rotta e tematica si è passati da Giordano Bruno come immensa fonte di cultura a cui chiunque può attingere, all’importanza del turismo e in particolar modo del «settore terziario avanzato» di cui Nola si può far fregio, come il “CIS“, il “Vulcano Buono” e l'”Interporto Campano“. È difficile comprendere perché si sia finiti a parlare di centri commerciali e città degli affari… ma riprenderemo il punto in seguito. Gli interventi del seminario sono stati tutti autoconclusi, che non avrebbero potuto permettere un dibattito vivo, vero, con opinioni su argomenti “scottanti” del pensiero e della vicenda bruniani.
Un barlume di interesse, su tutti, avrebbe meritato (non ha avuto) il discorso di Francesco Vitelli (professore del L.S.S.), uno dei pochi nell’intera “anteprima bruniana” a focalizzarsi sulla questione morale in Bruno, e avanzando anche un parallerismo arguto tra Bruno e Antonio Gramsci, il quale propose una riforma culturale rivoluzionaria [NdR: Gramsci formulò il concetto di egemonia culturale, attraverso la quale le classi dominanti forzano la classe subalterna ad adottare i propri valori, con l’obiettivo di rinsaldare la comunità intorno a un “senso comune” unico, assoluto, indiscutibile imposto da terzi]. Gli altri relatori, dai volti sbigottiti e contrariati, hanno cominciato i propri interventi sul solco del professore, ma da abili oratori hanno sùbito cambiato argomento, si è parlato dell’importanza della televisione dai pochi difetti e dagli innumerevoli pregi, uno strumento che Bruno aveva ipotizzato, secondo i codici di Norov a Mosca. Avremmo voluto veramente una disquisizione filosofica.
Michele Mezza, non contento di come sia andato il seminario, ha chiesto ripetutamente opinioni e pareri che la conferenza appena conclusasi avrebbe potuto suscitare nei ragazzi astanti, ma visto che nessuno ha avuto l’iniziativa di dire la propria, ha cominciato a chiedersi quale valenza Giordano Bruno avesse sul web, a chiederci quali sono i risultati dei motori di ricerca al valore “Giordano+Bruno”. E poiché questa domanda – meno che gli interventi precedenti – non ha suscitato interesse, ha interpellato personalmente uno studente dal quale era sicuro ricevere una valente risposta. Lo studente, contrariato dalla forzata richiesta, come i precedenti buoni oratori hanno dato prova di saper fare, ha cambiato immediatamente argomento, esprimendo le sue considerazioni su quanto ha fatto esperienza durante questa “anteprima di Biennale”, chiedendo perché si è dedicata una struttura fallica in legno alta 25 metri (un giglio) a Giordano Bruno, cosa di cui il filosofo sarebbe parecchio contrariato se ne venisse a conoscenza… Secondo Michele Mezza il giglio è più di una componente folcloristica per Nola, «il giglio è il simbolo di Nola», stesso simbolo di francesi, spagnoli, eccetera; l’alzata del giglio, ancora, è un momento fondamentale per far sodalizzare la comunità intorno a valori comuni, quali la fatica, la devozione, la famiglia, l’altruismo.
Forse il giglio di una volta, Michele Mezza. Forse il giglio di una volta. Questa festa, pagana un tempo, è stata trasformata in religiosa tramite il fenomeno di sincretismo religioso, sostituendo i simboli profani a quelli cristiani, dimodoché le chiese locali prendessero piede, consensi, potere nelle località contadine e retrograde che facevano ancora affidamento ai culti degli dèi. Il giglio è sottomissione totale alla divinità a danno del fedele, del suo corpo e della sua mente, lavoro sprecato e che avrebbe potuto fruttare vantaggi effettivi alla comunità, la cieca ignoranza che non si rende conto dei danni che possano provocare uno sforzo di quella misura, insegna la competizione, la rivalità, la faida tra gruppi, bande, comitati, che solo sodalizi di carattere economico possono ipocritamente saldare gli inutili contrasti interfamiliari. Il giglio è la rappresentazione del pene eretto, un fallo di 25 metri che alimenta inconsciamente i sentimenti di virilità di chi “culla” la struttura, e di possessione del membro da parte delle matrone che ne seguono i mariti. Tanto più la divinità è facente, tanto meno l’uomo può tentare di risolvere i problemi in terra; tanto più la divinità è sciente, tanto più l’uomo è ignorante e si sente fiero di non conoscere; tanto più la divinità è potente, tanto più l’uomo che sta sotto il lungo pene si sente in difetto.
Se l’anteprima ne ha già in nuce le intenzioni, la “Biennale Bruniana” risulterà probabilmente un modo strategico di sfruttare impunemente la figura del grande Giordano Bruno, facendolo un marchio per il turismo e i prodotti di Nola, che magicamente diventa una «terra di terziario avanzato», dacché il “CIS“, il “Vulcano Buono” e l'”Interporto Campano” sono gli sponsor principali della manifestazione. Nelle intenzioni di Michele Mezza, si dovrebbero dedicare tutti e gli otto gigli a Giordano Bruno, così da aumentare la speculazione sulla sua figura: questo “elogio dell’incertezza” – mi sa – si riferisce alla totale ignoranza che Mezza ha del pensiero bruniano, visti gli scempi che ne fa.
Autografi e scarabocchi
L’articolo pubblicato sul Corriere della Sera a pag. 39 dell’edizione del 17/04/2011, dal titolo “Il notaio fotografò Giordano Bruno sul rogo” mi suggerisce alcune amare considerazioni. Tralasciando il giudizio sulla significatività della testimonianza presentata, mi vien da chiedermi quali siano oggi i veri valori della cultura e chi ne detenga il monopolio. Mi spiego meglio. Studio Bruno da decenni, ho pubblicato libri, ripercorso personalmente la sua peregrinatio, collaborato a cortometraggi, video, mostre, convegni, e ho dovuto continuamente fare i conti con l’egemonia e la protervia della classe accademica. Mi direte: cosa c’entra questo con l’articolo in questione? C’entra, perché tre anni orsono ho presentato con i mezzi a mia disposizione (l’entusiasmo dell’editore Di Renzo e il sito internet dedicato al filosofo 13 anni fa) la mia scoperta di un inedito autografo bruniano, rinvenuto su una copia del Camoeracensis Acrotismus, nella Biblioteca del Klementinum di Praga. La risposta degli accademici? Silenzio assoluto sulla scoperta, veto di pubblicazione della notizia sugli organi di stampa da loro controllati e boicottaggio delle mie pubblicazioni! Ancor prima avevo pubblicato un saggio nel quale, per primo, identificavo una fonte rabelaisiana in un opera del Nolano. In seguito ho messo a disposizione di studiosi e appassionati la prima traduzione in assoluto di tre importanti opere latine del Nolano: Camoeracensis Acrotismus, Summa terminorum metaphysicorum e i Dialoghi su Mordente. Tutti questi studi sono stati regolarmente segnalati ai responsabili delle pagine culturali dei principali quotidiani nazionali, senza ricevere, salvo rare eccezioni, la benché minima risposta, magari critica, ma che almeno attestasse imparzialità di giudizio. Come può accadere una cosa simile? Non ignorate certo che, a partire dall’anno 2000, due o tre personaggi si sono spartiti, oltre ai fondi stanziati, anche le pagine culturali delle testate nazionali, esercitando il diritto di veto sulla pubblicazione di qualsiasi articolo o recensione che non riguardi una delle parti in lotta. Una sorta di comitato trasversale controlla, gestisce e censura tutto ciò che riguarda Giordano Bruno. Non posso credere che l’Italia sia giunta a un punto tale di degrado, che il potere accademico occupi tutti i centri nevralgici della cultura, oltre che nelle università, anche nei quotidiani nazionali e nelle principali case editrici! Non voglio entrare nel merito delle competenze e dei reali contributi scientifici offerti da costoro, non è questa la sede, ma soltanto evidenziare la disinvoltura con cui si spacciano per “bruniani” studi che col filosofo hanno quasi niente a che fare o saggi di autori stranieri che molto hanno da imparare da noi sulla personalità e sul pensiero del Nolano. Proprio in questi giorni Laterza pubblica con grande risalto (è citata anche nell’articolo in questione) una biografia di Bruno, che la stessa autrice, Ingrid Rowland, definisce “una introduzione per un pubblico anglofono […] per lettori con scarsa consuetudine con l’autore”. Con tutto il rispetto per la Rowland (sono sempre stato il primo ad incoraggiare ogni iniziativa volta a diffondere il verbo bruniano), è allucinante che in Italia si dia importanza a lavori tanto approssimativi e poi si trascurino le scoperte di studiosi competenti, impedendone la diffusione. Tanto per dare l’idea, al periodo zurighese di Bruno, indagato minuziosamente nelle circa 100 pagine del mio recente saggio “Bruno in Svizzera, tra alchimisti e Rosacroce”, la Rowland dedica la bellezza di….8 righe!! L’ho già fatto più volte, naturalmente senza che nessuno la raccogliesse, ma rilancio qui la sfida a chiunque voglia confrontarsi con me, pubblicamente, su questo terreno. Vorrei capire: sarebbe una novità l’aver trovato un bozzetto, dal quale dovremmo dedurre che Bruno aveva la barba e non la mordacchia, e non ha invece rilevanza il ritrovamento di una firma autografa inedita del filosofo, quando finora ne erano note soltanto due, di cui una dubbia? Val più uno “scarabocchio” dell’identificazione di un passo di Rabelais in un’opera del Nolano, influenza soltanto evocata e mai provata finora, o, ancora, last but not least, la mia recente ricostruzione, basata su inediti documenti rinvenuti in Svizzera, dei rapporti intercorsi tra Bruno e il movimento dei Rosacroce, che erano stati solamente intuiti, senza dati di fatto, da Frances Yates? Qui non si tratta di semplice discriminazione, ma di vero e proprio “banditismo” intellettuale!
L’autore, rivelando finalmente i suoi veri appetiti, chiude l’articolo con la richiesta che i miliardi di euro stanziati per gli allevatori (non si capisce poi perché proprio questi e non quelli dilapidati da tante altre categorie in modo ancor più scandaloso) siano dati alla “scuola” e alla “cultura”, cioè ai soliti noti! Ha forse dimenticato lo sconcio della “grande torta del Centenario del 2000”, allorquando una sola persona, Michele Ciliberto, gestiva il 92% di tutti i finanziamenti e il 100% dei fondi (3 miliardi del vecchio conio in tre anni) stanziati per le Celebrazioni del quarto centenario della morte di Giordano Bruno e cinque ricercatori si sono spartiti l’ottanta per cento dell’intera somma stanziata? Secondo lui sarebbero necessari milioni per interpretare una vignetta trovata in un archivio, mentre ci sono scoperte di studiosi, realizzate a proprie spese, soltanto per amore della verità che vengono tenute nascoste, in quanto non fruttano nulla, ma anzi mettono a repentaglio lo sfruttamento dell’affare. Si, amici miei, perché soltanto di affari si tratta e null’altro. E’ una situazione vergognosa, cui si è giunti grazie alla complicità di quella stessa stampa sempre pronta a scavare negli armadi di tutte le “caste”, tranne di quella accademica. Perfino i giudici vengono oggi messi in discussione, ma l’università continua ancora, sorprendentemente, a farla franca! Nonostante le sollecitazioni degli studiosi onesti, nessuno dei grandi censori della sinistra, per ovvi motivi politici, ha mai osato violare il covo dei furfanti accademici. Il mio non è un semplice sfogo, è di più! E’ il lancio di una giusta crociata per la salvaguardia della libertà e della coerenza di pensiero. Crociata il cui campione è a pieno diritto, proprio quel Giordano Bruno che costoro pretendono di gestire in esclusiva. Ciò che più indigna, il paradosso più assurdo, la più beffarda offesa che si possa fare a Bruno oggi è permettere che a rappresentarlo sia proprio il prototipo del pedante che Egli ha criticato e combattuto per tutta la vita. Il nemico numero uno dell’intolleranza e dei pregiudizi accademici che gli impedirono di salire in cattedra a Oxford, a Parigi e in quasi tutte le università d’Europa, è finito nelle mani di personaggi che fanno proprio questo: impediscono a studiosi preparati di insegnare negli atenei, impediscono la pubblicazione dei libri, impediscono la diffusione delle idee, impediscono la realizzazione di opere senza la loro approvazione. E poi pretendono di venirci a spiegare come la pensava Bruno! Suonano sempre attuali le parole di Antonio Labriola: “Bruno filosofo non appartiene soltanto ai filosofi e noi non tollereremo che la corporazione degli accademici lo sequestri per sé. Bruno fu il filosofo fastidito, l’accademico di nessuna accademia, il nemico dei pedanti, il libero ricercatore della verità: dunque che cosa ha di comune con le Università? Dio ci guardi dalla dottrina ufficiale! I sapienti che oggi esaltano il Nolano, ieri in compagnia del Bellarmino, ne avrebbero sentenziata l’insanità, perchè é ufficio dell’ Accademia non promuovere la Scienza, ma irrigidirla e canonizzarla. Perciò i discendenti dei dottori che derisero il Nolano e con lo Scioppio gioirono del supplizio, oggi non sapendo come fargli offesa lo vorrebbero incarcerare nelle loro cattedre ed ipotecarlo per le loro dispense di esame”.
Non mi illudo certo che pubblichiate questa mia, né che apriate finalmente un dibattito serio su questi delicati argomenti, sintomo eloquente di quello stesso declino culturale che Bruno annunciò per la sua epoca, riproponendo il lamento ermetico. Ciò nonostante continuerò sempre a denunciare questa situazione, con tutti i mezzi a mia disposizione, animato dalla stessa speranza che ispirava il Nolano: “ora che siamo stati nella feccia delle scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della feccia de gli costumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a meglior stati”.
Ai giovani studiosi che intendono dedicarsi alla ricerca mi sento di dare un consiglio. Non perdete tempo a rovinarvi la vista sui libri, non sciupate le vostre notti a percorrere insonni gli intricati sentieri della conoscenza! Affidatevi al marketing: preparate un accattivante polpettone, rimasticando materiali raccattati qua e là e comprate quanti più spazi pubblicitari e recensioni potete, se ne avete i mezzi. Il successo sarà assicurato, alla faccia del progresso del sapere e della obiettività storico-scientifica. Se, invece, siete davvero “Bruniani”, nel significato più profondo e autentico del termine (cosa che, nonostante tutto, vi auguro per la vostra evoluzione interiore), allora continuate a cercare la verità, cito ancora Labriola, “con passione, con frenesia, con ispasimo, senza riguardi umani, fra lo sprezzo dei dotti e disprezzandoli”.
Guido del Giudice