“Bruno, la Filosofia oltre il rogo”

“Ci fu in un. tempo distante . secoli un uomo che visse per la Verità e per il libero pensiero, che s’interrogava sul tempo e sulla vita e su quel Qualcosa che la vita inonda in ogni istante. Fu arso al rogo nel 1600, ma le sue domande risuonano ancora”

Giovedì 17 febbraio 1600 a Roma, in Campo de’ Fiori, all’ angolo con Via dei Balestrari, si brucia un uomo. Tutt’intorno si celebra un grande giubileo, che distribuisce per­dono e comprensione per tutti. La legna avvolge e consuma il corpo di un ex frate di san Domenico, Giordano Bruno da NoIa, “eretico pertinace” che sale al rogo non volendo ascoltare neppure un confortatore. Continua ad affascinare la vicenda umana e teoretica di quel «piccolo uomo dalla nera barbetta», che ci ha portato i suoi scritti dal Monte Cicala, presso Nola, «a imparar littere de humanità, logica e dialettica», la sua figura silenziosa, che parla di un orgoglio intellettuale mai sopito. Occorre ancora investigare l’anima del Nolano, bruciante di passione per la ricerca filosofica, unico strumento d’indagine dei “mondi infiniti” e sola strada dell’ umana cogitazione, slacciata finalmente dalle catene di fede e di teologia, categorie queste di cui Bruno preferì non occuparsi. Volle essere, e fu, solo un Filosofo. Genio assoluto e vita ribelle.

Quello “sciupafemmine”

Jacopo Corbinelli in una lettera lo dipinge «piacevol compagnietto, epicuro per la vita» e Indro Montanelli (Corriere della Sera del 5 febbraio 2000) definì Bruno uno «sciupafemmine». In realtà, il Nolano temeva solo di «essere spogliato dall’umana perfezione e giustizia». La Vita e la Natura furono per il Nolano il pronao di ogni verità; con ogni energia Bruno combatté la pedanteria e i nemici della libera investigazione «dell’infinito effetto dell’infinita causa». Seppe atterrare le porte di diamante della diffusa superstizione e cercò la Verità, che era, per lui, la cosa più divina di tutte.
Nella dedica alla signora Morgana, nel Candelaio, aveva scritto: «Ricordatevi, Signora, di quel che credo non bisogna insegnarvi: Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno e può perseverare eternamente uno, simile e medesmo. Con questa filosofia l’animo mi s’aggrandisce, e me si magnifica l’intelletto. Però qualunque sii il punto di questa sera ch’aspetto, si la mutazione è vera, io che sono ne la notte, aspetto il giorno, e ‘quei che son nel giorno, aspettano la notte: tutto quel ch’è, o è qua o llà, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi. Godete dunque, e, si possete, state sana, ed amate chi v’ama». Tra le molte questioni ch’egli trattò «con le maniche rimboccate, a mò di giocoliere», la sua concezione dell’universo infinito rovesciò la teoria geocentrica della Chiesa, anticipando il pensiero eliocentrico di Niccolò Copernico. Il panteismo bruniano fondò una teleologia immanente, essendo la Natura causa, legge e finalità a se stessa. In tutto c’è Vita: nell’universo come nella monade, come nell’individuo è contenuta la specie, la nazione, l’umanità.

Bestemmia e vomita insolenze

L’ «Academico di nulla Academia» portò la sua bisaccia di cuoio, carica di libri e di destino, per le migliori università europee, insegnando a confutare i lacci aristotelici, per rivendicare l’ assoluta libertà di pensiero e la forza della filosofia, che riscalda il cuore e lo avvicina alla Verità, unico oggetto della Poesia, altrimenti sterile esercizio di parole vane. Nel Candelaio così Bruno si era descritto al lettore-spettatore: «Per lo più il vedrete fastidito, restio e bizzarro: non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d’ottant’anni, fantastico come un cane ch’ha ricevute mille spellicciate». E nel sonetto Al malcontento, che apre i cinque dialoghi della Cena delle Ceneri, aveva scritto: «Non morder, se non sai s’è pane o pietra». Ritenne sempre che la fede servisse solo per istruire i rozzi popoli, e così le chiese. Altrove, nello Spaccio de la bestia trionfante, diede corso alla più radicale critica al cristianesimo prima di Friedrich W. Nietzsche. È certo, a ogni modo, che la sua filosofia lavò il capo al povero Aristotele. Guardando i suoi giudici, mentre veniva annotato che il Filosofo «alza le fiche al cielo e vomita insolenze», pronunziò parole che gelarono il sangue dei tunicati: «Avete più paura voi nel giudicarmi, che io nel ricevere la condanna».  Bruno pagò questa coerenza filosofica con l’effusione del sangue, forse rivolgendo l’ultimo pensiero a Morgana, sicuramente sapendo che avrebbe superato le ceneri dell’Inquisizione e le condanne dell’Indice per ripresentarsi, misteriosa domanda infinita, secoli dopo, al cuore e all’intelligenza di un maestro come Giovanni Gentile, che per primo ne collocò il genuino pensiero nell’ arbor philosophorum di tutti i tempi. La vita di Bruno fu tragicamente bella. Come ha scritto Anacleto Verrecchia: «Egli visse ciò che pensò e pensò ciò che visse». Al pari degli antichi greci, Bruno ritenne indecoroso vivere sulla filosofia, anziché per la filosofia. Ma il Nolano fu anche un ingenuo, uno spirito che si fidò di gente mediocre e visse sempre in mezzo alle tempeste. Sprezzò i risuolatori di coscienze che fino all’ultimo istante gl’intimavano il ravvedimento. Spinto dal demone che gli urgeva dentro, ebbe solo il suo ingegno per stupire la vecchia Europa. E vi riuscì. Una falena che si bruciò alla luce del suo ideale.

«Quel che viviamo è un punto»

Definì le guerre di religione «pestifera Erinni»; le attraversò tutte, ma l’ultima, in casa, gli fu fatale. Era una dannata guerra: ragione contro dogma. Non cercò l’utile, ma la Verità. Più tardi, ormai è accertato, Johann W. Goethe lo prenderà a modello del suo Faust. Era nato postumo, e il suo tempo non glielo perdonò. Gli orecchi dell’epoca, pieni di cerume scolastico, non intesero la sua musica nuova. Si preferì trebbiare paglia vuota. Bruno fu soprattutto un uomo riconoscente con i pochi che seppero e vollero aiutarlo. Nel De gl’heroici furori aveva annotato la difficoltà di cercare febbrilmente un senso da dare ai giorni: «Cossì il sursum corda non è intonato a tutti, ma a quelli ch’anno l’ali. […]Quel che abbiamo vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel che abbiamo ancora a vivere non è ancora un punto, ma può essere un punto, il quale insieme sarà e sarà stato». In una delle più riuscite “autobiografie” di Bruno, Eugen Drewermann (Giordano Bruno. Il filosofo che morì per la libertà dello spirito, Rizzoli, Milano 2000), ha scritto: «In me vedete un uomo libero. La verità Voi la conoscete? Io no. Io so solo che ho conservato le mie angosce per il mondo, e posso dire in tutta onestà: non sono mai stato tanto presuntuoso da confondere la mia angoscia con Dio. Al contrario, ho imparato a superare la mia angoscia di fronte al mondo attraverso una fiducia in qualcosa che non ho mai visto, e che tuttavia certamente non ha mai riso di me. È questo che chiamate Dio? Se esiste, è forse il mio unico lettore». La sua storia, come un’aquila, s’aggira ancora inquieta per il mondo. E parla di una Filosofia fattasi carne, che mordacchia e legna accannata da stoltezza non sono riuscite a tacitare.

“Battibecco clericale”

Ennesima polemica antibruniana, ma stavolta c’è da rimanere attoniti: i contendenti sono tutti cattolici militanti!

Un paio di “sagrestani” si sono sentiti in dovere di spostare le loro penne dal calamaio dell’acqua santa a quello del veleno, per contestare un articolo di Gerardo Picardo, appassionato bruniano oltrechè teologo. L’ormai secolare querelle anti-bruniana sta assumendo ultimamente toni addirittura grotteschi: perfino nell’ambiente clericale si affrontano partiti diversi. Così a posizioni più aperte e illuminate, pur nell’ambito della piena ortodossia cattolica, come quelle di Miele e Giustiniani, che addirittura si sforzano di riportare la riflessione Bruniana nell’alveo di una teologia cattolica (si veda il testo di Stefano Ulliana, scaricabile nella sezione download), fanno da contraltare attacchi ignoranti e beceri come questo, ispirati al bigottismo reazionario di quello Stanley Jaki di cui avevo già denunciato la meschinità in una pagina della “Mordacchia“.

E, quel che è peggio, nel tentativo di darsi una parvenza di imparzialità, si richiamano al peggio di quella critica laica bruniana che, o per risentimento nei confronti di un presunto antisemitismo di Bruno (Foa), o per misconoscenza assoluta del suo pensiero (Pogge), o per puro scandalismo storico (Bossi), o per apologismo biografico (Pomponio), si accanisce a denigrare il filosofo Nolano.
Su tutti, l’argomento di gran lunga preferito, perchè trova fertile humus nell’atavico vizietto inquisitorio ed esorcistico, è quella sciagurata interpretazione del “mago ermetico” di Frances Yates, tanto efficace nel ricercare il profondo rapporto di Bruno con l’ermetismo, quanto incapace, per mentalità e sensibilità, di comprenderne il senso vero e di valutarne il giusto peso nel complesso della sua filosofia.

Ancor più stucchevole è la ripetuta affermazione di una presunta anti-scientificità del pensiero di Bruno, quando invece è esattamente l’opposto. Le più moderne teorie scientifiche non fanno che avvalorare l’assoluta genialità delle intuizioni bruniane e la loro sostanziale armonia con le più recenti impostazioni del pensiero cosmologico e scientifico, come testimonia efficacemente il rispetto e l’ammirazione della comunità degli scienziati per il pensatore Nolano.
Purtroppo, in questa occasione, la grave svista tipografica ha dato un motivato appiglio ai “sagrestani” per sferrare il loro velenoso attacco: stai più attento in futuro, caro Gerardo: costoro non aspettano altro! Nessuna meraviglia allora che tu ti senta lacerare le vesti dai loro canini affilati. E a poco vale rifugiarti dietro il tuo libro, più volte richiamato a mò di scudo: costoro riconoscono solo le autorità che gli convengono ed hanno una tradizione millenaria nello stravolgere e mistificare codici e testi o nel cancellarli del tutto. Per fortuna con Bruno, nonostante tutti gli sforzi, non ci sono riusciti: è questo il loro cruccio!

“Uno 007 nel 1500. «Mi chiamo Bruno, Giordano Bruno» Italiani in Inghilterra”

Giordano Bruno non si sentì mai così felicemente a casa quanto nel corso dei suoi due anni in Inghilterra dal 1583 al 1585, quando riuscì a diventare il guru del momento e come tale oggetto della satira di Shakespeare in Pene d’amor perdute, nella parte di Berowne: «Andiamo allora, io giuro di studiare / per sapere qualcosa che m’ è proibito imparare». A Oxford venne respinto come professore perché seguace di Copernico e per plagio di Marsilio Ficino, così furono Londra e la Corte reale a divenire – così lui decise – il suo spazio d’ azione e non una Oxford popolata da «ciechi somari che non si preoccupano di cercare la verità ma solo di studiare e giocare con le parole». Bruno fu un’ ispirazione per il «New Drama» e la «New Science», frutto di un fermento da alchimista di magia e matematica, astronomia e astrologia, tutti fusi nel falso oro della scienza moderna.
Il Nolano ispirò la controcultura anti Aristotelica e «ateistica» della School of Night di Sir Walter Raleigh, il cui esperimento pratico fu la colonia alla Prospero in Virginia e quello creativo il Dr Faustus di Kit Marlowe, un personaggio in parte basato su Bruno. Anche Bruno studiava come Faustus a Wittenberg, come pure non solo Amleto (che come Bruno capovolge una corte aristotelica) e il suo amico «spirito calmo» Orazio ma anche i suoi nemici, le spie Rosencranz e Guildenstern. A venire assassinato non fu solo il padre di Amleto, ma anche i capi di Stato dell’ epoca di Scozia, Olanda e Francia (per ben due volte). Il fatto che una scomunicata Elisabetta non abbia patito lo stesso destino è in gran parte dovuto a Bruno la Spia, al servizio del fondatore dei servizi segreti di Elisabetta Sir Francis Walsingham, per il quale «nessuna informazione è troppo costosa».
Enrico III inviò Giordano Bruno, il suo lettore domenicano rinnegato, a fare da cappellano, confessore ed elemosiniere presso Michel de Castelnau, suo ambasciatore francese a Londra in un periodo nel quale l’ipotesi di matrimonio tra Elisabetta e suo fratello il duca di Alençon e d’ Angiò – «la mia ranocchia», lei lo chiamava – era caduta. Ora Castelnau negoziava ufficialmente per un esilio in Francia della regina scozzese Maria, mentre complottava per farla diventare regina d’Inghilterra. Giordano Bruno, nelle sue vesti di 007, ebbe un ruolo cruciale nello sventare questi piani.
Odiava il papato e la dottrina protestante della Predestinazione quasi allo stesso modo, ma era a favore della politica estera protestante di Elisabetta perché era la più contraria agli interessi del Papa. Bruno agiva già sotto copertura nell’ Inghilterra protestante come il prete cattolico in borghese nell’ambasciata e venne presentato a Elisabetta come il gentiluomo di Castelnau. Quando il polacco Palatine Laski arriva, Elisabetta lo fa alloggiare con i cattolici italiani a Winchester House e la regina (con Walsingham) chiede a Bruno di accompagnarlo in un viaggio sul fiume fino a Oxford. Qui incontra l’ esperta spia William Herle e a Mortlake incontra John Dee, il primo alchimista e matematico inglese che parte con Laski alla volta della Polonia, lasciando così il ruolo di guru a disposizione di Bruno.
Questi sistemò l’altro rivale filosofico Lord Henry Howard con la falsa accusa di essere in segreto un prete e persino un cardinale – cosa per cui l’erudito Lord rischiò una morte da traditore, terribile quanto quella che sarebbe stata la fine dello stesso Bruno. Scrivendo prima a Walsingham sotto lo pseudonimo di Henry Fagot (che in inglese significa «fascine per rogo»), poi tramite la spia Herle e infine direttamente a Elisabetta, Bruno corrompe il segretario dell’ambasciatore, il cattolicissimo signore di Courcelles, per ottenere accesso a tutta la corrispondenza segreta tra Maria e la Francia, compresi i depistaggi. Può così confermare la notizia che Angiò ora progettava un matrimonio spagnolo e un’ alleanza tra Francia e Spagna in funzione antinglese; Bruno inoltre apprende che Fowler, la spia di Walsingham, faceva il doppio gioco e procura l’ unica prova tangibile del complotto di Francis Throckmorton, risalente al 1583 e abortito grazie allo stesso Bruno, di invadere l’ Inghilterra con truppe francesi e spagnole, assassinare Elisabetta e incoronare Maria, mentre il duca di Guise doveva succedere a Enrico III. Così Throckmorton viene processato e giustiziato, mentre Bruno osserva la reazione di un Castelnau in preda al panico.
Questo complotto fu la più seria minaccia alla vita di Elisabetta fino all’Invincibile Armata del 1588. Bruno fu un genio di invenzione immaginativa. I suoi rapporti sui tentativi di avvelenare i profumi e la biancheria intima di Elisabetta e l’informazione sadicamente falsa – ottenuta confessando un prigioniero irlandese – che sotto tortura Throckmorton non aveva ancora rivelato tutti i cospiratori erano sbagliati almeno nei dettagli, se non in generale. Riuscì a scoprire in tempo Thomas Babington: il suo complotto del 1586, ancora una volta fallito e organizzato con la connivenza di Maria, portò al processo e stavolta all’ esecuzione della stessa Maria. Bruno era una spia eccellente: coraggioso, arguto, sicuro, ottimo osservatore e privo di scrupoli morali nei confronti di amici e nemici. C’è una giustificazione cifrata nell’ opera Spaccio de la bestia trionfante (1584): «La Simplicità, pedissequa de la Veritade non deve lungi peregrinare dalla sua regina, benché talvolta la dea Necessitade la costringa di declinare verso la Dissimulazione, a fine che non vegna inculcata la Simplicità o Veritade, o per evitar altro inconveniente. Questo facendosi da lei non senza modo ed ordine, facilmente potrà essere fatto ancora senza errore e vizio»

Il filosofo a Positano al premio di giornalismo vinto da Maria Luisa Agnese e Francesco Erbani

Il folle volo, la virtute e la conoscenza, l’arte di assassinarsi l’un l’altro. E poi quell’universo senza muraglie regalatoci nei Dialoghi Italiani dall’ultimo «mago» finito sul rogo in Campo de’ Fiori il 17 febbraio del 1600. C’è tutta l’idea dell’esplorazione nella retorica rovesciata che conduce a personaggi-simbolo del passato, da Ulisse a Giordano Bruno, passando per Cristoforo Colombo: colui che ha dato il via a pratiche che avrebbero condotto allo sterminio di interi popoli e culture. «Oggi c’è quasi un processo a quest’uomo – sostiene il filosofo Giulio Giorello intervenuto ieri presso i giardini di Palazzo Murat a Positano alla consegna dei premi di giornalismo civile a Francesco Erbani e Maria Luisa Agnese «perché avrebbe aperto l’età delle aggressioni alle popolazioni originarie. Ma non è lui ad avere tutte le responsabilità. È un problema dei politici successivi, sia spagnoli che anglosassoni, perché la verità è che Colombo ci ha regalato una grande avventura di coraggio e pensiero». La stessa che in modi diversi ha animato il folle volo di Ulisse, esploratore ardito non privo di dubbio, migrato dal poema omerico al Purgatorio dantesco.

«Anche il giornalismo è avventura. E non soltanto per via del racconto, ma per ciò che si può vedere oltre i confini della notizia», ha sottolineato invece il direttore di «Sette» Maria Luisa Agnese nel corso del seminario (ha moderato Francesco D’Episcopo) promosso dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici guidato da Gerardo Marotta e inserito nella rassegna letteraria «Positano mare sole e cultura» come appuntamento-memorial dedicato a Salvatore Attanasio, imprenditore illuminato e fondatore della decennale manifestazione culturale. «Il giornalismo non può essere tale se non è civile», ha replicato Francesco Erbani di Repubblica. «E questo perché esiste un carico di responsabilità che altre discipline non hanno, specie per il ruolo svolto nell’equilibrio dei poteri».

Ma cosa c’entra Ulisse con l’informazione del Terzo Millenio? «Insegna innanzitutto a non accontentarsi delle notizie confezionate», aggiunge Erbani. «Le verità vanno cercate con spirito di conoscenza. Il giornalista oggi dovrebbe essere una sorta di Ulisse moderno. Purtroppo però non lo è appieno, perché spesso si svolge questo mestiere con attitudini impiegatizie». Il «folle volo» dalle epoche remote al mondo nuovo è proseguito poi attraverso quel senso di «virtute e conoscenza» che nell’esortazione di Ulisse un vero uomo dovrebbe cercare di perseguire. «Sono fattori che vanno recuperati come ai tempi di Giordano Bruno: studiando con coraggio e modestia», aggiunge Giulio Giorello.
«Con coraggio rispetto alle tradizioni, con modestia, rendendosi conto che siamo la piccola parte di un cosmo senza limiti». Non bisogna raggiungere la verità, ma «contribuire cercarla», ha concluso Erbani «spingendo il lettore ad approfondire, anche battendosi contro il sistema che ha ridotto l’informazione a intrattenimento. E guai a confonderla con la comunicazione: questa è roba per aziende che sfruttano i canali per promuovere i loro prodotti».

“Il folle volo da Ulisse a Bruno”

«Quando venimmo a quella foce stretta/ Ov’ Ercole segnò li suoi riguardi,/ Acciò che l’uom più oltre non si metta» (Inferno XXVI, vv. 107-109), cioè allo stretto di Gibilterra, Ulisse e i suoi compagni – nella versione poetica di Dante – sono ormai «vecchi e tardi», disposti a correre il rischio del «folle volo» per fare esperienza di un «mondo senza gente». La loro rotta sembra una disperata rincorsa al Sole che tramonta. Eppure, questa sorta di medievale tour di marinai della terza età avviene nel segno della trasgressione. Non solo della tradizionale prudenza dei navigatori, che ben si guardavano dal gettarsi oltre le Colonne d’Ercole, ma anche della sapienza divina che ha situato l’alto monte del Purgatorio nel mezzo dell’Oceano. Il volo non può che essere folle, perché votato al disastro: altro che «virtute e conoscenza», che nell’esortazione di Ulisse ciascun vero uomo dovrebbe cercare di perseguire. Ma quelle parole sono pronunciate da una figura che per Dante è quasi la personificazione dell’inganno. Come dire che conoscenza e virtù possono essere anche votate al male. Cristoforo Colombo era convinto che non fosse affatto folle quel tipo di crociera, che avrebbe permesso «passando per Occidente» di raggiungere a Oriente terre ricche come le Indie. Ma anche lui sembra esser stato ossessionato dalla montagna del Purgatorio: la Terra non andava considerata esattamente rotonda perché «essa aveva piuttosto la forma di un seno di donna con la protuberanza del capezzolo» (che coincideva, appunto, con l’alto monte di Dante). Colombo si sbagliava: non doveva trovare sulla sua rotta le Indie, ma scoprire comunque qualcosa di molto interessante. Non l’altro mondo delle anime che scontano la loro pena, ma un nuovo mondo e pieno di gente, nonché di strane piante e animali, per non dire di oro e altri preziosi metalli. Cariche di queste meraviglie dovevano tornare in Europa le Caravelle. E cominciava una ben diversa Odissea, quella dei popoli indigeni vessati e rapiti dai conquistatori «cristiani».
Il Cinquecento, che vede compiersi il Grande Periplo con il ritorno dei superstiti della flotta agli ordini di Magellano (ma non lui che perisce) e al tempo stesso gli astronomi discutere di «novità celesti», plasmerà una potente metafora: i «filosofi della natura» sono come gli esploratori geografici – entrambi gustano il frutto proibito della scoperta e ne rendono partecipi gli altri. Nel secolo successivo, in piena rivoluzione scientifica, Galileo Galilei sarà presentato dagli Accademici dei Lincei come «il Fiorentino scopritore non di nuove terre ma di non ancor vedute parti del cielo». Ancor ai tempi nostri, come ha sottolineato Paul Feyerabend, ogni vero ricercatore non può che sentirsi imbarcato in un viaggio verso la sua «America della conoscenza».
Questa potente retorica rovescia quella di Dante: i nuovi adepti di «virtute e conoscenza» sono soprattutto uomini giovani, ma forse non così disinteressati. Già nel dialogo La cena de le Ceneri (1534) Giordano Bruno capovolgeva quest’immagine e spezzava l’analogia. I navigatori dei nostri oceani, da quelli dell’antica mitologia a uomini come Colombo, hanno insegnato agli indigeni delle terre che hanno «scoperto» soprattutto «l’arte di assassinarsi e tiranneggiarsi l’un l’altro» (e dunque folle è stato davvero il loro volo, giacché ha esportato i modi europei della violenza). Al contrario, il filosofo della natura, armato della propria ragione, «ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo» e in questo modo «ha donato gli occhi alle talpe» cioè ha liberato dall’ignoranza almeno quella parte di umanità capace di seguire virtù e conoscenza.
Aveva ragione Bruno in questa sua «stroncatura»? Lo stesso Colombo nella sua Relazione della navigazione lungo tutta la costa meridionale di Cuba (1495) riporta di essere stato salutato da un cacicco «nell’isola di Santiago, che gli indigeni chiamano Jamayca», con queste parole: «Dappertutto la gente ti teme, e tu hai distrutto i cannibali, che sono assai numerosi e feroci, facendo a pezzi le loro canoe e case, prendendo le donne e i figli, uccidendo quanti non poterono mettersi in salvo». Oggi, in un’epoca in cui qualunque leggenda non è immune da revisione, William Least Heat-Moon scrive che Colombo ha dato il via «a pratiche che avrebbero condotto allo sterminio di interi popoli e culture» (Colombo nelle Americhe , Einaudi). Al contrario, l’universo «senza muraglie» e popolato da innumerevoli sistemi solari che Bruno ci ha regalato nei suoi Dialoghi italiani resta innocente di tutti gli orrori che gli uomini commettono su questa terra, piccolo pianeta «sperduto» attorno al suo Sole. Tra i pochi nell’epoca sua a denunciare l’imperialismo degli esploratori-conquistatori, Bruno rimpiangeva un’età in cui «agili navi» di pirati come Ulisse ancora non portavano desolazione da una terra all’altra. L’ultimo «mago», finito sul rogo in Campo dei Fiori il 17 febbraio 1600, nel suo vivere e morire nella contraddizione può essere eletto a simbolo di quell’Europa che ha scelto di donare al resto del mondo non la devastazione ma la conoscenza.

“Ancora fascine sul rogo di Bruno”

“Una costellazione di pedantesca ostinatissima ignoranza e presunzione mista con una rustica inciviltà”. Questa la descrizione che Giordano Bruno dà nella Cena delle Ceneri, del clima culturale che egli avvertì a Oxford quando, nel 1583, tenne lezioni in quella università.
Quelle parole, che già all’epoca provocarono una piccola rivolta con tanto di assalto all’ambasciata francese dove Bruno alloggiava, tanto da indurlo a mitigarne il tono nel De la Causa principio et uno, pesano ancora come un macigno sulla coscienza culturale degli inglesi. La missione di vendicare quell’onta si tramanda di generazione in generazione tra i discendenti dei dottori oxoniensi, che però non riescono a far nulla di meglio che rendersi degni di quel giudizio.
Cominciò già nel 1604 George Abbot, futuro Arcivescovo di Canterbury, allora vice-cancelliere a Oxford, a parlare con disprezzo di quell’omiciattolo italiano […] che rimboccandosi le maniche come un giocoliere…. intraprese il tentativo, fra moltissime altre cose, di far stare in piedi l’opinione di Copernico, per cui la terra gira e i cieli stanno fermi; mentre, in verità, era piuttosto la sua testa che girava, e il suo cervello che non stava fermo.
In tempi più recenti Frances Yates fornì un supporto critico ai detrattori del Nolano con la sua sciagurata interpretazione del “mago ermetico”, tanto efficace nel ricercare il profondo rapporto di Bruno con l’ermetismo, quanto incapace per mentalità e sensibilità di comprenderne il senso vero e di valutarne il giusto peso nel complesso della sua filosofia.
Nel 1991 toccò allo storico John Bossy cimentarsi nell’impresa di ricacciare in gola al Nolano le sue offese: nel suo “Giordano Bruno and the Embassy Affair”, egli compie il più infame e meschino tentativo di infangare il genio di un Italiano, mai perpetrato da un inglese. Inventa un racconto poliziesco, nemmeno tanto interessante, e pretende di spacciarlo per storia: Bruno viene così identificato con un certo Fagot (in inglese “fascine per rogo”!), spietato e cinico prete-spia al servizio di Sir Francis Walsingham. Con forzature oltre ogni credibilità (addirittura arriva ad asserire che Bruno scrivesse con due grafie diverse: una per le sue opere e una per le missive segrete di Fagot!), l’ineffabile Mr. Bossy trasforma l’ispirato profeta dell’universo infinito in uno squallido, blasfemo sbeffeggiatore, maestro dell’inganno e della turpitudine.
Eppure basterebbe pensare alle opere immortali che il Nolano scrisse nel breve periodo dell’ esperienza inglese, per capire che sarebbe stato impossibile conciliare l’ispirata e geniale riflessione filosofica dei Dialoghi Italiani con le ciniche informative del delatore. E’ un sistematico e premeditato sovvertimento della figura morale del filosofo: è lui il Giuda, non più Mocenigo! L’attitudine alla beffa dissacrante del Candelaio diventa l’habitus consueto di colui che girò il mondo per diffondere le proprie idee, non certo le proprie burle o facezie. Al culmine della sua “fatica” Bossy getta la maschera e conclude”: “Ben gli è stata la sua sorte!”, dando libero sfogo al livore e alla furia iconoclasta che l’hanno ispirato.
Col tono del gossip di fine anno, è ora la volta di Richard Newbury di riesumare e condire il peggio delle invenzioni scandalistiche di Bossy e riproporle con l’aggiunta di qualche malignità personale.
Il titolo dell’articolo sembra già suggerire che gli “Italiani in Inghilterra” il minimo che possano fare è comportarsi da spie amorali e senza scrupoli, poco importa che si tratti di pensatori del calibro di Giordano Bruno. Anche Shakespeare e Marlowe, che subirono il fascino potente del Nolano, sono obbligati ad abiurare : il ghigno satanico di Bruno trasfigura i volti del Berowne di Pene d’amor perdute e del Dr. Faustus. Perfino Amleto divide con lui la colpa di aver studiato a Wittenberg! Per il resto si tratta del resoconto poco originale delle malefatte del filosofo-spia nei due anni trascorsi in Inghilterra, alla luce della ricostruzione di Bossy.
La citazione di sapore machiavellico che conclude l’articolo, scovata con forzato acume nello Spaccio della bestia trionfante, sull’opportunità della Dissimulazione ben si attaglia, più che a Bruno-Fagot, a questi falsari della storia che, nel meschino tentativo di consumare una vendetta, aggiungono onta da onta, ridicolo a ridicolo.

Lettera aperta al Direttore de “Il Foglio”

Caro Direttore,
vorrei esprimere qualche considerazione sui due articoli su Giordano Bruno, apparsi sul Suo giornale a firma di Francesco Agnoli. Più volte in passato è accaduto che qualcuno sentisse il bisogno, chissà perché, nei momenti più impensati, di scrivere qualcosa di denigratorio su Bruno, a cominciare da Montanelli per arrivare a John Bossi e ai suoi seguaci (tra i quali si situa con orgoglio l’autore dell’articolo in questione), buon ultimo quel Richard Newbury, che fece la sua sortita l’anno scorso sulle pagine del Corriere della Sera, col titolo significativo di “Italiani in Inghilterra”. Ciò che accomuna tutti costoro è il fatto di non aver letto una pagina, che sia una, delle opere di Bruno e arrogarsi, nonostante ciò, il diritto di sputare sentenze, manipolando sempre le stesse trovate denigratorie di Frances Yates, di John Bossi o di R.W. Pogge (altro campione dell’anti-brunismo).
Guarda caso si tratta sempre di autori di lingua anglo-sassone, che non hanno ancora digerito le critiche che Bruno rivolse nella Cena delle Ceneri alla loro patria, ove regnava ” una costellazione di pedantesca ostinatissima ignoranza e presunzione, mista con una rustica inciviltà che farebbe prevaricar la pazienza di Giobbe”.
Questa volta il fatto assume maggiore gravità perché a parlare non è il solito frustrato anglosassone, incarognito dalle critiche feroci del Nolano e che potremmo limitarci a compatire, interpretandone le parole come una squallida vendetta postuma. Stavolta si tratta di un italiano, che dovrebbe semmai esaltare la figura di uno dei pochi nostri pensatori ammirati e rispettati all’estero ancor più che in patria, anziché divertirsi a sbeffeggiarlo e neanche con argomenti originali, ma rimestando la solita brodaglia allestita dai nemici d’oltre manica. Almeno Montanelli, nella sua rancorosa invettiva contro il Nolano aveva avuto l’onestà di dichiarare che della sua voluminosa opera non aveva letto che pochissime pagine. Costui, pur avendone lette probabilmente ancora meno, vuole invece presentarsi addirittura come un fine conoscitore delle vicende bruniane, rivisitando a puntate, come un feuilleton, l’intera vita del filosofo, in una prospettiva da Codice Da Vinci, per cui il “Giordano Bruno e il mistero dell’ambasciata” di John Bossi, anziché un romanzo di genere, assume il rigore scientifico di una biografia storica.
Come è possibile, senza tradire l’onestà intellettuale, trascurare i ricchissimi contributi che studiosi del calibro di Aquilecchia, Badaloni, Ciliberto, Ordine etc. hanno offerto alla critica bruniana e servirsi invece della biografia romanzata di un D’Amico? Non si riesce nemmeno a provare indignazione, si resta semplicemente allibiti da tanta pochezza: l’articolo non dice un bel niente di nuovo, nemmeno in negativo, rimasticando concetti triti e ritriti, già smontati e ridicolizzati più volte in passato e, soprattutto, lascia perplessi di fronte al ben più inquietante interrogativo di cosa ci sia dietro un attacco così becero e ingiustificato. L’articolo di Agnoli denota soltanto una totale impreparazione sull’argomento e una mancanza assoluta di originalità critica, il tutto per raggiungere il solito autolesionistico obiettivo di gettare fango su uno dei pochi nostri conterranei amati e rispettati all’estero, nel tentativo malevolo di abbattere un mito postumo, quello del “martire del libero pensiero”, da Bruno mai richiesto né alimentato, tanto lontano rimane dalla sua weltanschauung. Se di un mito si può parlare a proposito di Bruno, è quello di un grande personaggio, di un profeta, che ha lasciato traccia di sé nei più svariati campi dello scibile, dall’astronomia alla filosofia, dalla fisica al teatro, e viene oggi ammirato in tutto il mondo.
Basti pensare alla venerazione che nutrono nei suoi confronti i tedeschi, di cui è nota la passione per la filosofia e la cultura. Lo sa Agnoli, quando blatera di interpretazione magica ed ermetica delle scoperte di Copernico, che il polacco, pur dimostrando la centralità del sole rispetto ai pianeti, continuava a considerare, nel suo sistema, la sfera delle stelle fisse come un limite invalicabile, che fu il Nolano ad abbattere coraggiosamente, affermando l’infinità dell’universo? In paesi culturalmente avanzati come quelli scandinavi si insegna da tempo, già ai bambini delle elementari, che l’evoluzione della concezione dell’universo passò attraverso tre teorie successive: la tolemaica, la copernicana e, appunto, la bruniana.
Il fatto è che quando qualcuno si cimenta nell’impresa di scrivere un articolo su Bruno, si accorge che studiare seriamente (come richiederebbero la complessità dell’argomento e la serietà professionale) le opere del filosofo, è compito tutt’altro che liquidabile in quattro appuntini, come d’abitudine, per cui niente di più comodo, per creare qualcosa di giornalisticamente provocatorio, che attingere all’archivio dei “pezzi scandalistici”.
Voglio pensare, Direttore, per la stima che nutro nei confronti suoi e del suo giornale, che si sia trattato di un semplice incidente di percorso e il modo brusco in cui l’impresa si interrompe alla seconda puntata, proprio ai piedi del rogo, dove più crudelmente si sarebbe potuta scatenare la furia maligna dell’autore, mi fa pensare che qualcuno in redazione si sia alfine accorto dell’errore commesso e abbia posto fine a tale scempio.

Leggi gli articoli di Francesco Agnoli

Leggi il commento di Pierluigi Panza

Leggi il commento di Anna Foa

Leggi il commento di Nuccio Ordine

Altri commenti

“Bruno intoccabile? No, ma servono prove” – di Nuccio Ordine “Corriere della sera”- venerdì 02 settembre 2005

L’ intervento di Anna Foa sul Corriere della Sera di ieri distorce la mia posizione. Io non difendo Giordano Bruno a priori, «trattando come malfattori quanti non si prosternano davanti al suo altare». Se così fosse, non potrei essere uno «studioso di grande rigore» come, bontà sua, la storica generosamente mi definisce. Le cose stanno in maniera diversa. A più riprese, nel corso degli ultimi decenni, si è riproposta una pseudo-storiografia che ama occuparsi di Bruno con intenti soprattutto scandalistici e denigratori.
Il libro di John Bossy, Giordano Bruno e il mistero dell’ ambasciata (Garzanti), elogiato dalla Foa, ne è un esempio eclatante. Su quali documenti si fonda la tesi che dietro lo pseudonimo della spia Henry Fagot si nasconda Bruno? Nessuno. La grafia delle lettere dello 007 non coincide? Niente dubbi: il filosofo, per non svelare la propria identità, ha contraffatto la sua scrittura. Come avrebbe potuto Bruno redigerle in francese? È facile: nelle sue opere non mancano i francesismi. Come si spiega la lettera inviata da Parigi nel 1586, mentre Bruno è in Germania? Non è un problema: il Nolano era in Germania, ma chi può smentire che non si fosse recato in Francia solo per spedire le sue informazioni a Londra! Ma anche la stessa Foa – che, nonostante le dichiarazioni di ammirazione, non esita però a considerare Bruno megalomane o anticipatore di Cagliostro – talvolta è vittima di «distrazioni»: il filosofo non rientra in Italia dopo sette anni di peregrinazioni (pag. 41 del libro di Anna Foa, Giordano Bruno, il Mulino), ma dopo tredici; il De la causa non è dedicato alla regina Elisabetta (pag. 39), ma all’ ambasciatore Castelnau. Altro ci sarebbe da dire sulla credibilità degli accusatori nelle carceri di Venezia (pag. 51) o sull’elogio di Lutero a Wittenberg (pag. 80).
Che ben vengano, quindi, le ricerche degli storici. Ma che siano fondate sul rigore filologico e sui documenti.
E soprattutto, quando si emettono giudizi di valore, sulla lettura diretta delle opere. La storia romanzata, tanto di moda oggi, è ben altra cosa. Non a caso – quando ciclicamente si infiamma il dibattito sui rapporti tra scienza e fede, religione e società civile – una certa pubblicistica finisce per confezionare un’immagine degradata di Bruno proprio con gli elementi più scandalistici e denigratori. In questo ambito si colloca la crociata di Francesco Agnoli, personaggio degno del flaubertiano Bouvard et Pécuchet, che ancora ieri propinava le sue invettive ai lettori de Il Foglio. Purtroppo il mito non ha giovato a Bruno. Gli effetti del rogo hanno alimentato piuttosto aneddoti e leggende, elevandolo in maniera distorta a simbolo di cose opposte. Per cogliere i limiti e il valore del suo pensiero, bisognerebbe con molta umiltà leggerne le opere.
Il dibattito su Giordano Bruno, per stabilire se la sua fama sia dovuta alla morte sul rogo o alla novità del suo pensiero, è stato lanciato da Francesco Agnoli sul Foglio (18 e 25 agosto). A lui hanno replicato Nuccio Ordine e Giulio Giorello sulle pagine del Corriere (30 agosto) difendendo il Nolano e chiamando in causa anche Anna Foa, che si è «difesa» sul Corriere di ieri, mentre Agnoli ha replicato sul Foglio.

“Ma Giordano Bruno non è un tabù” – di Anna Foa “Corriere della sera”- giovedì 01 settembre 2005

Il rogo di Giordano Bruno si è spento da oltre quattrocento anni. Pensiamo ancora che ci sia bisogno di difenderne la memoria a spada tratta, trattando come malfattori quanti non si prosternano davanti al suo altare? O non è meglio lasciare che, accanto al rigore meritorio di chi cura e commenta le edizioni delle sue opere, ci possa anche essere spazio per quanti cercano di reinserire la storia della sua fortuna, e della sua memoria, nella storia? Nemmeno il testo biblico ha difensori tanto rigidi nel sottrarlo alle traversie della storia. Sembra infatti che in Italia solo Bruno resti un’ icona intangibile.
Ecco quindi uno studioso di grande rigore, Nuccio Ordine, che (sul Corriere del 30 agosto scorso) scende in campo con la lancia in resta contro due articoli apparsi sul Foglio (del 18 e 25 agosto) di Francesco Agnoli, dove appoggiandosi con notevole rozzezza a una bibliografia degna di rispetto (il Giordano Bruno e la tradizione ermetica di Frances A. Yates e l’opera di John Bossy, che attribuisce a Bruno un’azione di spionaggio a favore di Elisabetta d’ Inghilterra) l’ autore proclama che Bruno non era un grande filosofo, e che la sua fama è dovuta solo al rogo. Ed ecco che, per ribadire la sua difesa di Bruno, Ordine tira in ballo, molto a sproposito, direi, dal momento che non condivido nulla delle tesi di Agnoli, un mio libretto di alcuni anni fa (Giordano Bruno, il Mulino), in cui avevo delineato una storia della «fortuna», potremmo dire, del pensiero di Bruno in Italia e di come il pensiero liberale italiano abbia costruito una memoria bruniana del tutto funzionale alla costruzione dell’identità italiana.

Personalmente, credo che questa costruzione in chiave risorgimentale sia stata un’operazione del tutto legittima, che ha riportato Bruno fuori dall’ oblio in cui lo avevano collocato la sua condanna e l’azione di censura dell’ Indice, oltre che le preferenze culturali del Sei-Settecento, ostili in genere all’intera tradizione platonica e inclini a occultarla. L’interesse per questo problema era nato in me al margine di uno studio su Pierre Bayle, in cui mi colpì l’astio con cui veniva trattato Giordano Bruno nel suo Dictionnaire.

Di qui, la voglia di dipanare alcuni fili non filosofici, ma puramente di storia della cultura. Tutto questo è stato visto all’epoca, e continua a essere visto, come una bieca operazione revisionistica, volta a negare dignità filosofica al filosofo di Nola, e per di più in nome di presunte ragioni religiose. Come storica, diverso era il problema che mi ero posta, e continuo a credere che sia un problema legittimo. Come lettrice (e non essendo una filosofa, come lettrice comune), mi sono cari i suoi scritti e amo la sua reinvenzione modernissima dell’infinità dei mondi.
Dopo aver fatto per tanto tempo storia dei fatti, noi storici, è noto, ci siamo messi a fare storia di fenomeni più evanescenti: delle emozioni, delle percezioni, delle false notizie, fino ad arrivare, negli ultimi decenni, a essere particolarmente attratti dalla storia della memoria, dal modo cioè in cui la memoria storica si è codificata, stratificata, creata. Di come si è selezionata, a quali norme ha obbedito la selezione. Moltissimi sono stati così gli studi dedicati all’uso pubblico della memoria e della storia, alla costruzione delle varie memorie. Perfino la costruzione della memoria della Shoah in Israele è stata materia di analisi critica in un bellissimo libro dello storico israeliano Tom Segev (anch’egli accusato, è vero, di essere un revisionista iconoclasta). Resto dell’opinione che, per la Shoah come per Bruno, cercare le domande che stanno dietro i percorsi delle memorie sia un’ operazione, per uno storico, non solo legittima ma perfino doverosa.

Giordano Bruno: “L’epilogo del processo, la dignità della morte dopo una vita di intrighi e magie”- di Francesco Agnoli, “Il Foglio”- 01 settembre 2005

Giordano Bruno concepisce a Venezia il folle disegno di “portare cambiamenti (politici) significativi, quantomeno nello scacchiere italiano”. A tal fine progetta di rientrare nella Chiesa, di recarsi a Roma dal pontefice Clemente VIII, per dedicargli un’opera, e, come si diceva, probabilmente, per riuscire a condizionarlo tramite le arti magiche. Non c’è grande nobiltà nei mezzucci con cui, contraddicendo patentemente il suo credo, persegue i propri fini. Ma nello stesso 1591 viene denunciato al Santo Uffizio dal suo stesso ospite: al Mocenigo è bastato un attimo per rimanere deluso dagli insegnamenti di Bruno, e scandalizzato dalle sue bestemmie.
Dopo i sogni di potenza, il filosofo nolano precipita sul banco degli imputati, ma è già abituato ai processi, alle abiure, alle fughe, e forse pensa, in cuor suo, di farla nuovamente franca. La sua tattica difensiva consiste nell’ammettere alcune accuse, nell’attenuarne altre, e nel negare, infine, le più infamanti.
Negare tutto sarebbe troppo sciocco, vista la possibilità per il tribunale di venire in possesso dei suoi scritti, e di indagare sul suo passato. Lo scopo è quello di “apparire persona rispettosa della autorità della Chiesa e della sua dottrina, anche se momentaneamente posto al di fuori di essa” (D’Amico). Arriva così a rinnegare alcune sue opere, e a presentare i suoi passati riavvicinamenti alla Chiesa, compiuti sempre e solo per convenienza politica, come testimonianza della sua sostanziale “ortodossia”. Il filosofo degli “eroici furori”, in realtà, non ha nulla di eroico: “tutti li errori che io ho commesso… et tutte le heresie… hora io le detesto et abhorrisco…”. Come già coi calvinisti di Ginevra, il ribelle, la spia, l’arrivista in cerca di poltrone universitarie, dopo aver attaccato e inveito, si inginocchia e abiura, con pari teatralità e finta compunzione. Ma Roma sospetta, e nel febbraio 1593 avoca a sé il processo, che durerà otto lunghi anni. Il tribunale inquisitoriale non emette condanne frettolose, ma procede con precisione e scrupolo, convocando testimoni, compulsando le opere, rispettando tutte le procedure, invitando ripetutamente ad abiurare. Bruno si dichiara disposto in più occasioni a cedere: la condanna, e l’affido al braccio secolare, arrivano dopo varie promesse di abiura, e altrettanti ripensamenti.

Il memoriale mandato in extremis al Papa
Nel giorno della condanna giunge al Papa un memoriale di Bruno: perché, se aveva già deciso di affrontare la morte? Probabilmente il memoriale, che non conosciamo, conteneva l’ennesima disponibilità all’abiura: forse Bruno credeva di poter ancora dire e disdire, senza conseguenze. A cosa si deve, allora, questa improvvisa accelerazione del processo? Secondo la Yates, a un evento contemporaneo: l’arresto di un altro domenicano ribelle, Tommaso Campanella. Non bisogna infatti dimenticare l’epoca in cui ci troviamo: la Riforma ha portato alla ribalta prima Lutero, con le conseguenti guerre dei cavalieri e dei contadini, e le relative mattanze, e poi millenaristi come Matthison di Haarlem, un capo anabattista che si sentiva “incaricato della esecuzione del castigo divino contro gli empi, e mirava semplicemente al massacro universale”, o il “profeta Hofmann” di Strasburgo, “il quale andava dicendo di voler fondare la Nuova Gerusalemme” e si accingeva a preparare la mobilitazione “dei cavalieri della strage che con Elia e Enoch appariranno impugnando la spada e vomitando fiamme per sterminare i nemici del Signore”. Campanella è filosoficamente molto vicino a Bruno.
Anch’egli ritiene che stia giungendo l’ora dei “grandi mutamenti, l’avvento dell’età dell’oro”. Organizza così una congiura, in meridione, cercando l’alleanza dei Turchi, e in particolare di feroci pirati come Bassàn Cicala, per realizzare uno Stato magico, dittatoriale, di impostazione comunista. La congiura viene sventata nel 1599 (Francesco Forlenza, “La congiura antispagnola di Tommaso Campanella”, Temi). Tale nuova minaccia, religiosa e politica insieme, accelera forse la condanna di Bruno, che morirà, alla fine, con dignità. Ma dopo essere stato scacciato da almeno dieci città diverse, condannato da cattolici, calvinisti, protestanti e professori universitari; dopo essere stato spia, aver violato il segreto confessionale, aver ripudiato se stesso, per convenienza, innumerevoli volte, e, infine, dopo aver cercato, attraverso la magia e l’intrigo, di rovesciare l’ordine politico, non solo quello religioso, del suo tempo. Spacciarlo per un puro, un eroe coerente sino alla fine, uno scienziato moderno (titolo che lui stesso non avrebbe affatto desiderato), come cercano di fare Nuccio Ordine e Giulio Giorello sul Corriere della Sera di martedì scorso, è mera e ideologica falsificazione storica (condita con abbondanti dosi di retorica).