Altri spettacoli

LE VOCI DEL RIFIUTO – GIORDANO BRUNO

Le voci del rifiuto

Dopo essere stato messo in scena a Villa Piccolomini nel 2005, al Teatro La Casetta nel 2006 e al teatro Flaiano l’anno scorso, l’atto unico ideato e  realizzato  da Roberta Pugno viene presentato, con il patrocinio del Comune di Roma e  delle Biblioteche di Roma, presso la Casa del Parco a Pineta Sacchetti

Lo spettacolo si svolge nello spazio retrostante lo splendido casale restaurato recentemente, trasformato per l’occasione in teatro notturno. Alle spalle del pubblico un incredibile paesaggio di distese di campi di grano da cui sorge il Cupolone. “Le voci del rifiuto” è il racconto dello scontro mortale tra un pensiero che rivoluzionò la visione del mondo e la concezione dell’uomo, e la realtà violenta dell’intolleranza e della falsità.

Lui, filosofo superbo, allegro e appassionato, passa da un’immagine all’altra, da un concetto all’altro: l’universo infinito, la pluralità dei mondi, lo spazio continuo, la sostanza sensibile di cui siamo fatti, la dualità dei contrari, l’incessante trasformazione della materia, l’intelligenza dell’amore.

L’altro, invisibile e nero, con voce immobile ne decreta la fine.

Lei ci viene incontro con passi di danza e movimenti ad arco: da dove nasce il rifiuto? da dove nasce il coraggio? da dove la certezza? Il suono del sax, che si intreccia alla voce maschile e che accompagna lo stupore della donna, ci dice quanto sia attuale il rifiuto del pensiero religioso e del pensiero razionale.

Di quanto sia indispensabile oggi più che mai la ricerca della bellezza e della “verità”.

Theatre Notre Dame


LA SALA DELLE CENERI (di Guido del Giudice)

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La rassegna teatrale Museum, che per il nono anno è tornata ad animare gli splendidi scenari della Certosa di San Martino è diventata ormai un appuntamento imperdibile del calendario culturale napoletano.

Quest’anno Renato Carpentieri che ne è l’ideatore e l’animatore insieme alla sua “Libera Scena Ensemble” ha voluto impreziosirla dedicando uno degli spettacoli a Giordano Bruno. Giusto assegnare un ruolo di primo piano, in un’iniziativa che si propone di armonizzare cultura e patrimonio artistico di Napoli, ad un suo geniale figlio troppo spesso dimenticato o addirittura maltrattato dai suoi conterranei.

Tra pochi giorni, il sindaco di Montegranaro scoprirà, nella piazza della sua cittadina, una statua dedicata al filosofo Nolano. Napoli, che lo accolse, giovane novizio diciassettenne, nel convento di S. Domenico Maggiore e lo educò e formò sotto quel “benigno cielo” che egli, nel corso della sua lunga e dolorosa peregrinatio, non mancò mai di evocare e rimpiangere, non ha ancora sentito il dovere morale di tributargli un pubblico ricordo.

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Chi ha la fortuna di viverli, si consoli almeno con momenti come questo.

La scelta del testo è caduta molto opportunamente sulla Cena delle Ceneri, che ha trovato un palcoscenico ideale in una delle antiche sale della suggestiva certosa, ribattezzata per l’occasione “Sala delle Ceneri”.

Condensare nei 45 minuti dell’azione scenica il profondo e rivoluzionario messaggio del Nolano non era certo facile, ma Amedeo Messina è riuscito nell’impresa firmando una drammaturgia che, senza appesantire eccessivamente l’azione scenica, dosa sapientemente tutti gli ingredienti che fanno della Nolana filosofia un patrimonio prezioso dell’umanità intera e in particolare di quella napoletanità sempre orgogliosamente rivendicata dal filosofo.

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Partendo dall’antiaristotelismo e dalla visione cosmologica di un universo inteso come multiverso, infinito e senza centro, il vero obiettivo di Messina è quello di mostrare la costante attenzione del Nolano per il divino, a dispetto della farneticante etichetta di ateismo affibiatagli sia da parte cattolica che anticlericale. Non mancano opportuni accenni ad altri temi importanti della speculazione bruniana, dalla fisiognomica alla magia naturale.

Lello Serao, che ha curato anche la regia, conferisce attendibilità all’interpretazione presentandoci, con la consueta bravura, un Bruno oscillante tra la sofferente ricerca intellettuale e l’istrionica sicurezza di sé che caratterizzarono il suo non facile carattere.falini

Il risultato è raggiunto grazie anche all’inserimento di alcune trovate sceniche originali e tutte al femminile. E’ il caso della personificazione dell’Ars memoriae, che assisteva Bruno nelle sue spettacolari performance dialettiche, nel personaggio di Mnemosine, interpretato con il dinamismo Ilaria Falinidi un folletto dalla leggiadra Ilaria Falini. Alessia Sirano, dal canto suo, nei panni della padrona di casa Lady Greville, assolve con grazia il compito di ingentilire il ruolo che, nell’opera, è del pedante Prudenzio, trasformandone l’ottusità in sincero desiderio di conoscenza.

Tutti bene in parte gli attori, visibilmente vincolati, essi per primi, dalla magia bruniana, a partire da Antonio Franco (John Florio) che accompagna Bruno, attraverso il fango e la plebe londinesi, al palazzo del suo ospite Fulke Greville (Andrea Marrocco) per una cena filosofica il cui fine è abbattere il velo di diffidenza rappresentato dalla consuetudo credendi dei suoi ospiti, nei confronti delle sue tesi innovative, prima di affrontare l’attacco dei pedanti oxoniensi.

In definitiva uno spettacolo che, pur nella necessaria stringatezza, riabilita, dal punto di marroccovista teatrale, il testo bruniano dopo la sciagurata devastazione operata un paio d’anni fa da Antonio Latella.

A conferma della riuscita dello spettacolo, Vi propongo questo bellissimo post, tratto dal blog di elisewinfox, invitando tutti coloro che vi hanno assistito ad esprimere le loro impressioni.
Ieri sono riuscita finalmente a ritagliarmi una mattinata per andare a Museum. Il primo spettacolo che ho visto e che m’ha entusiasmato di più di tutti (belli comunque) è stato:

La Cena delle Ceneri con un eccezionale Lello Serao nel ruolo di Giordano Bruno.

Volevo scrivere un post che fosse quanto più fedele possibile alla visione dello spettacolo, raccontando l’ambientazione, di come il pubblico era stato coinvolto, descrivendo minuziosamente l’emozioni di alcuni dialoghi svolti in coro tra Giordano Bruno e la dea Mnemosine, ma purtroppo non ci riesco.

Iniziando a scrivere questo post mi sono resa conto che certe volte è davvero impossibile descrivere le sensazioni che si provano, soprattutto quelle forti, quelle che ti stringono lo stomaco, ti fanno mancare il fiato e ti fanno ritrovare con gli occhi lucidi per la commozione di stare vedendo qualcosa di bellissimo ed unico nel suo genere.

Quelle emozioni che si provano mentre vedi uno spettacolo così e pensi che TUTTE le persone a cui tieni dovrebbero vederlo, perché gli piacerebbe, perché condividono i tuoi stessi pensieri, i tuoi stessi ideali ed uno spettacolo del genere è certamente anche il LORO, ma nello stesso momento, ringrazi di essere da sola a guardarlo quello spettacolo, perché è un momento tutto TUO, un regalo che ti sei fatta.

Avrei voluto descrivere la scena finale, quella in cui si racconta dell’epilogo della vita di Giordano Bruno, quando fu arso al rogo per aver difeso sino alla fine e senza compromessi le idee in cui credeva.
Avrei voluto descrivere, l’emozione che si prova alla fine di uno spettacolo del genere, quando resti un attimo in silenzio, cercando di respirare e di riprenderti da quella morsa che ti ha stretto lo stomaco per poi alzarti, senza rendertene conto, ed iniziare a battere le mani.

Ecco, volevo descrivere tante cose, ma non ci sono riuscita, perché l’unica cosa che può farle capire realmente è ANDARLO a VEDERE!!!

“Una fiamma a Campo de’ Fiori”, il nuovo lavoro teatrale di Alberto Samonà dedicato a Giordano Bruno

Foto di scena, Marco Feo

Una fiamma a Campo de’ Fiori è il titolo del nuovo lavoro teatrale di Alberto Samonà, autore  e giornalista, dedicato a Giordano Bruno, il filosofo di Nola arso vivo nella piazza romana il 17 febbraio del 1600.

Si tratta di un progetto di “teatro narrato” in cui viene raccontato proprio il sacrificio dell’ex frate domenicano, che non volle abiurare i propri convincimenti fino alla morte.

Lo spettacolo, della durata di un’ora e quindici minuti, è un monologo in cui Bruno traccia in prima persona le linee-guida del proprio pensiero esoterico e filosofico. La voce dell’attore protagonista è affiancata da quella di un narratore, che scandisce le fasi della vita dell’ex frate domenicano in un continuo interscambio.

Una fiamma a Campo de’ Fiori verrà messo in scena, in anteprima nazionale, venerdì 24 agosto, alle 21.30, a Villa Piccolo, Capo d’Orlando (Messina),  SS. 113 Km 109 (ingresso libero). In autunno sarà la volta di Palermo, e successivamente è previsto un suo allestimento a Roma, per poi proseguire in altre città italiane.

Bruno è interpretato dall’attore palermitano Marco Feo, mentre la voce narrante è di Cesare Biondolillo. L’accompagnamento musicale dal vivo è affidato ad Alessio Pardo (chitarra) e Mauro Cottone (percussioni); le scenografie sono della pittrice Ambra Gioia.

In scena, Giordano legge la realtà dalle pagine del proprio “libro della memoria”. Lo scorrere dei giorni e degli anni è scandito da 22 scene, ciascuna contrassegnata da una differente carta dei Tarocchi e ogni carta sembra interagire con la vicenda umana e spirituale dell’ex frate, il cui contenuto simbolico si intreccia con il significato delle 22 figure. Una fiamma a Campo de’ Fiori ha una scansione del tempo “circolare” in modo che ogni scena, ogni momento ruoti attorno ad un centro, contrassegnato dall’immobilità e dal silenzio.

Il monologo diviene botta e risposta nella sezione dello spettacolo dedicata al processo contro il filosofo nolano e al quale prese parte, in veste di inquisitore, il teologo Roberto Bellarmino. Il processo è, però, occasione per conoscere la visione cosmologica del filosofo, i rapporti con la religione e con il Divino e le fonti tradizionali ed esoteriche alle quali attinge il suo pensiero, da Ermete Trismegisto alla magia naturale di Marsilio Ficino.

Alberto Samonà è giornalista professionista. È stato cronista di “giudiziaria” per vari quotidiani e periodici. È autore di diversi testi a contenuto filosofico e tradizionale. Con questo progetto, è alla sua seconda esperienza di “teatro narrato” dopo Le orme delle nuvole, spettacolo “sufi” scritto nel 2006 dal cantastorie iracheno Yousif Latif Jaralla e tratto proprio da un racconto del giornalista.

Mostra a Napoli “Le Stanze di Tato Russo”

 Gli anni del coraggio” dedicata al regista partenopeo.

Tato Russo
Fino a domenica 28 luglio sarà possibile visitare a Castel dell’ Ovo la mostra dal titolo “Le Stanze di Tato Russo”.
La mostra, completamente gratuita, vuole rendere omaggio alla poliedrica personalità del drammaturgo napoletano e al suo teatro. A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, ha spaziato dalle opere di Shakespeare al “Candelaio” di Giordano Bruno. Dal teatro di Molière ai capolavori di Luigi Pirandello.
Allestita con cura e precisione da Giulio Baffi, Marialuisa Firpo e Gabriella Grizzuti, insieme al Teatro Bellini. La rassegna si avvale di istallazioni multimediali, proiezioni scenografiche, costumi e bozzetti che raccontano l’avventura teatrale e la vita dell’artista. Il percorso è articolato in tre stanze: la prima intitolata “L’Uomo”, è la stanza del pensiero in cui sono visibili gli scritti del drammaturgo insieme ad appunti, fogli e pagine dei suoi capolavori; nella seconda, denominata “Il Teatro”, oltre ai bozzetti, si può ammirare la maschera di Pulcinella tanto amata dal talento napoletano; infine, nell’ultima stanza “Il Sognatore“, il visitatore, sarà accompagnato dalla voce dello stesso Tato Russo, nel suo mondo di fantasia.
Le stanze di Tato Russo
La mostra è aperta al pubblico
dal lunedì al sabato dalle ore 10.00 alle 18.00,
la domenica dalle ore 10.00 alle 13.00.

“Il Candelaio”

DVD-Candelaio

“Il Candelaio” è da tutti considerato il capolavoro di Tato Russo. Riscritto completamente nel napoletano antico del 600, interpretato solo da maschi anche nei ruoli femminili. Spettacolo misterioso, magico, poetico e straziante. E’ da tutti considerato frutto d’una classe e di una misura ineguagliate di far teatro. E’ espressione d’una maturità artistica e d’una geniale inventiva ormai giunte al massimo vigore.

Trailerhttps://youtu.be/5LG_9FNlti0

Bellini editrice

IL TRAMONTO DEL RINASCIMENTO (di Franca Angelini)

ultimanotte candelaio

Che tipo di commedia è “il Candelaio”. Questa composizione abnorme, eccessiva, assolutamente originale nel quadro del teatro italiano della seconda metà del XVI secolo? E ancora: perché il filosofo, il “fastidito” solitario nel pensiero e nelle azioni, cerca il teatro per dire la sua pessimistica visione del mondo? Opera destinata alla lettura ma anche alla rappresentazione, il Candelaio dà forma visibile alle “idee” di Bruno. Alla sua ricerca dell’unità nel molteplice e alla necessità dunque di frantumare il reale. Di moltiplicare i punti di vista per restituire il senso, o il non senso, di un mondo dominato dal disordine e dal caso.

Opera anti-classicista.

Non è dunque improprio considerare questa commedia nella tendenza anti-classicista che domina il suo periodo. Per un impianto drammaturgico che anticipa il barocco, per la foga con cui le forme del passato, le regole del classicismo, i modelli, la prospettiva unica vengono demolite. Inoltre, per la sua furia dimostrativa. Il Candelaio rappresenta uno dei rari esempi di comico di idee, in cui si ride pensando, in cui le forme dialogica e monologica svolgono non solo ardui percorsi linguistici, ma la discorsività aderisce perfettamente a una visione unitaria nel molteplice.

La commedia.

La commedia risponde infatti a due complementari spinte: quella di distinguere e raggruppare i personaggi in una catalogazione enciclopedica del genere umano, confermata dalla contemporanea composizione del De Umbris Idearum (Parigi 1582) opera dedicata alla mnemotecnica. E quella di moltiplicare gli esempi, le parole, le situazioni, come se la ripetizione fosse operazione capace di riprodurre la casualità degli eventi e al tempo stesso di togliere senso al mondo rappresentato. La commedia si articola quindi intorno a tre nuclei, che sono tre vizi e tre follie del genere umano: la passione d’amore con l’inamorato Bonifacio, la passione dell’oro e la fede nella magia e nell’alchimia con l’avaro Bartolomeo, la cattiva cultura classica con il pedante Manfurio: “Però, per la cognizion distinta de’ suggetti, raggion dell’ordine ed evidenza dell’artificiosa testura, rapportiamo prima, da per lui, l’insipido amante, secondo il sordido avaro, terzo il goffo pedante, de’quali l’insipido non è senza goffaria e sordidezza, il sordido è parimente insipido e goffo, ed il goffo non è men sordido ed insipido che goffo”.

L'”artificiosa testura”.

Sono parole famose che introducono all’argomento della commedia, illustrato nei dettagli e scena per scena come si conviene a un’intenzione didattica rivolta al lettore, per metterlo in grado di dominare la folta trama o, brunianamente, l'”artificiosa testura”. In queste parole è già contenuta la novità e il significato della commedia; la scrittura come artificio moltiplicato virtualmente all’infinito, per creare esempi, ombre di idee distinte ma anche comunicanti in quel teatro di vizi che è il mondo e, in esso, il genere umano.

Questa struttura è ben nascosta nelle scene, 14 nel primo atto, 7 nel secondo, 13 nel terzo atto; una struttura che moltiplica l’esempio con la ripetizione, il che conduce a costruire una trama complessa, intorno ai tre nuclei dell’amore, del denaro, della falsa cultura, tutti e tre destinati alla beffa, alla punizione, allo sberleffo. Nel segno della moltiplicazione sono anche i vari prologhi che introducono alla commedia; ingressi ripetuti, visti da varie prospettive, ironici e autoironici.

Gli “abbeverati nel Fonte Caballino”.

Tale moltiplicazione consuma, brucia la convenzione ed elimina quel senso e quella funzione che il teatro classico aveva attribuito al prologo: invenzione di una figura che rappresenta l’autore , le sue idee e la sua drammaturgia, e che rappresenta la commedia, la sua trama e i suoi personaggi. Alla commedia si entra qui per varie porte, che ironicamente rimandano -quasi all’infinito- il momento vero e proprio della rappresentazione. Primo a parlare, rivolto ai poeti, è il libro, che chiede un inno, un’ode, un encomio, temendo la censura, o qualcosa di peggio, da parte dei pedanti; in una lingua quasi infantile, il Libro ironizza sulle dediche ma soprattutto sui poeti, gli “abbeverati nel Fonte Caballino”.

Il Libro.

Il Libro, che scompare al momento della rappresentazione è per Bruno fondamentale perché è qui che si elaborano e si esprimono le idee, ed è qui che le idee si tramandano. Pertanto è il lettore il protagonista, anche della dedica alla signora Morgana B., secondo ingresso al Candelaio. In tale dedica il discorso si fa più serio, perché quasi in un “teatro degli astri” sono qui evocati segni zodiacali e figure celesti in una contrapposizione tipicamente bruniana tra l’alto del cielo e basso dell’uomo.

Perché questo è uno dei sensi della commedia: una feroce visione del basso per alzare lo sguardo sull’infinito, una visione del molteplice per arrivare all’uno; in una commedia che, come il contemporaneo trattato, è “ombra di idee”. L’ultimo ingresso è offerto dall’argomento e ordine dell'”artificiosa testura”, da Bruno presentati e riassunti in modo molto dettagliato, nelle tre dimensioni dell’amore, dell’alchimia, della pedanteria che continuamente si intrecciano e interferiscono.

Nell’Antiprologo.

Il Candelaio manca dunque di quella prospettiva unica che legava i vari tipi a situazioni della commedia rinascimentale; è un polittico, articolato nella serie di scene che argomentano la varietà dei punti di vista, nel segno del raddoppiamento che presiede ai doppi sensi verbali e alle maschere e travestimenti dei personaggi. Radicalizzando il dubbio sull’identità, tale mondo diventa veramente un mondo di ombre. Un mondo che si rappresenta intero, nel segno però della negazione; un mondo-non mondo, esattamente come nell’Antiprologo il personaggio che parla nega l’argomento e ordine della commedia che l’ha preceduto e afferma che la trama è tanto intricata che l’ha dimenticata. Bruno dunque dice e disdice, fa e disfà, usa dissolvendo, bruciando nella negazione quanto ha costruito: “In conclusione – conclude l’Antiprologo – io voglio andar a farmi frate; e chi vuol far il prologo, sel faccia”.

Il Proprologo.

Ma subito dopo il Proprologo, negando la precedente negazione, annuncia il luogo della commedia, che sarà una Napoli realistica e insieme simbolica del caos del mondo. Il luogo scenico rimanda al vedere, al delirio della visione che nel Candelaio accompagna il delirio verbale. Come dice il pittore Gioan Bernardo: “La mia arte è dipingere e donare agli occhi de’mundani la imagine de Nostro Signore, di Nostra Madonna e d’altri Santi del Paradiso” (V,25). E’ probabile che questa idea appartenga a Giordano Bruno, ed è forse questa la risposta alla domanda iniziale sul perchè abbia scelto il teatro per rappresentare intero il mondo degli uomini, cioè il “gran teatro del mondo”.

DA NINCHI A TRIONFO PASSANDO PER RONCONI (di Anna Maria Sorbo)
Candelaio
Il Candelaio di Tato Russo

Agli inizi del secolo lo aveva rappresentato Annibale Ninchi. Dopo non inarrestabili riprese (tra cui una a Roma, nel 1940, ad opera di un gruppo di teatro universitario), è del 1964 la versione liberamente ridotta da Paolo Poli. O, piuttosto “uno spettacolo che s’intitola Il Candelaio di Giordano Bruno”, trasmutato – mercé la “variazione di temi, motivi, intrighi” e l’interpolazione di una “serie di episodi sciolti e sganciati” – in varietà facile e buffo (Francesco Bernardelli, La Stampa del 17 dicembre). Eppure, “come se Il Candelaio non fosse uno dei testi cinquecenteschi più scorbutici da portare sulla scena”, fa notare Sandro De Feo su L’Espresso del 25 ottobre 1964, insieme allo spettacolo di Poli appare un secondo allestimento, curato da Giuseppe Manini con i suoi giovani teatranti di Narni, che si segnala almeno per attenzione e rispetto filologici.

Lo “Scandalo”.

Quanto al primo, tutto sommato l’unico suo “torto” o meglio il “malinteso” o “disguido” è quello “d’essersi rivolto, lui così grazioso, elegante, attillato, ad un opera che è la meno graziosa, elegante, attillata che si possa immaginare”. Lo “scandalo”, insomma, se c’è, “è solo stilistico, per il divario che s’avverte tra il fondo barocco, turgido, violentemente meridionale della commedia del Bruno, non soltanto nel linguaggio, e la grazia fiorentina di Paolo Poli scremata di ogni acredine e di ogni turgore, spiega Giorgio Prosperi sul Tempo.

Luca Ronconi.

Si arriva all’anno per antonomasia della contestazione, e sulle scene giunge un Candelaio ben diverso, autorevolmente siglato da Luca Ronconi, che porta nell’universo di Bruno – sostituendo Roma a Napoli – un gruppo di ragazzi di vita pasoliniani, Ninetto Davoli in testa. Di fronte alle “variazioni cabarettistiche” di Poli che l’hanno preceduta, taglia corto Alberto Blandi su La Stampa, quella di Ronconi è “la prima messinscena che si conosca di questa commedia antica di quattro secoli, la prima che ha restituito il suo difficile linguaggio nella sua integrità”.

Giorgio Prosperi.

La “prima volta” che al Candelaio venga consegnata “la sua dimensione multipla e il suo tono inquietante” anche per Giorgio Prosperi, mentre Tian parla di “un registro di deformazione allucinante tirata fino allo spasimo” accenna con riserva all’indulgenza della mano allestitrice verso una “formula stilistica”, allo “stravolgimento e l’esasperazione dei toni di recitazione”, all’estraneità allo spettacolo dei ragazzi di vita.

Lele Luzzati.

All’alba degli anni ottanta, Aldo Trionfo – su un testo adattato in collaborazione con Alessandro Giupponi, con scene di Lele Luzzati, costumi di Santuzza Calì e il manipolo al completo del Teatro Stabile dell’Aquila – si impegna in una lettura del Candelaio che si direbbe “scientifica, testi filosofici a fronte”, purtuttavia il testo continua a non funzionare in palcoscenico e lo spettacolo risulta “non sempre chiaramente leggibile e talvolta perfino noioso” secondo Paolo Luchesini de La Nazione (10 dicembre 1981).

Guido Davico Bonino.

Non è così per Guido Davico Bonino, che sulle colonne de La Stampa segnala l’allestimento di Trionfo come “una perentoria metafora scenica e visuale”. G.A. Cibotto del Gazzettino, lo giudica “un meccanismo quasi perfetto”, condotto “sul filo di una serrata e controllata stilizzazione” col “tono d’una cerimonia quasi liturgica”, “esempio di come vada recuperato certo teatro antico dimenticato un po’ da tutti”. Una lezione di teatro, ovviamente per il pubblico superstite. Anche per Ubaldo Soddu del Messaggero, un “rigoroso e severo spettacolo che, ad onta della sua lunghezza, si fa seguire per la bravura degli interpreti”. Pure per Franco De Ciuceis del Mattino, mentre Giorgio Prosperi indica proprio nell’eccesso di intelligenza (forse sarebbe più giusto dire di ingegnosità intellettuale) il limite più vistoso di Aldo Trionfo”.

Londra.

Nel 1991 l’opera del filosofo nolano torna verso i suoi luoghi d’origine. La precedente edizione era andata in scena al Pit di Londra, secondo teatro della compagnia shakespeariana. Andò in prima assoluta inglese (malgrado i rapporti di Bruno – si legge su La Stampa che ne dà notizia nell’aprile 1986 – con sir Philip Sydney a Londra e forse con lo stesso Shakespeare).

Al Bellini di Napoli Tato Russo reinventa il Candelaio. Lo traduce prima  in italiano e poi in napoletano del cinquecento. Un “napoletano d’epoca di non facile comprensione ma di solida energia espressiva e di grande musicalità”. Questo per una “regia all’altezza del testo così brillantemente rinnovato”, scrive Masolino d’Amico su La Stampa.

Ugo Ronfani.

Identico il giudizio di Ugo Ronfani sul Giorno. Tato Russo “coglie bene lo spessore di questo testo della trasgressione”. Ne fa “uno spettacolo vibrante” – e di Enrico Fiore del Mattino. “Tato Russo sposta la commedia sul versante del bozzetto realistico” ma con “stilemi e situazioni intelligenti e affascinanti”.

In primis l’impianto scenografico “con quelle altissime pareti nere corrose da una lebbra crudele e inarrestabile”.

LA NAPOLI DI BRUNO E’ LA NOSTRA (di Luciano Giannini)

Candelaio di Tato RussoHo scelto due piani di lettura. Il primo è la trama, la storia. Il secondo coinvolge la scenografia e si manifesta simbolicamente in un palazzo. Un grande palazzo cinquecentesco che nel corso dello spettacolo si sfalda, regno onirico delle visioni di Bruno. Lì appariranno via via tutti i suoi fantasmi. La follia sessuale, i rabbiosi, complessi rapporti con la donna e la Chiesa, frammenti significativi della sua vita inquieta di esule insofferente… Lo chiamavano “il fastidito”, no? Un po’ come me… e infatti a riscriverlo per la scena mi ha mosso lo stesso fastidio e lo stesso disgusto che lui provò verso la società intollerabile dei suoi tempi.

Il “Fastidito”.

Anche forse la sua intemperanza, il suo gusto per la polemica. Il fascino di disputare di tutto e di tutti, e quella sua strana tentazione all’eversione sempre congiunta a una altissima religiosità. Quel clamoroso impasto di moralità e ragione e sragione e furori eroici. Di impaziente e insofferenze infinite, che sono ormai frutti di poco prezzo al mercatino del nostro tempo. E poi perché credo che il Candelaio sia la più straordinaria opera che la nostra civiltà teatrale abbia dedicato alle rappresentazioni di questa “nostra Napoli”. Che qui è la vera protagonista della commedia(…). Nel candelaio di Giordano Bruno, datato 1582, c’è tutta la Napoli di oggi con i suoi ladri, le puttane, i malfattori. Gli intellettuali venduti, la crudeltà, la meschinità dei rapporti. E’ sconvolgente: nulla è cambiato da allora.

Luciano Giannini: Tato, vediamo un po’ più a fondo questa rassomiglianza tra la Napoli di allora e quella di oggi

Tato Russo: Il Candelaio, dello scalmanato, eversivo, ribelle Giordano Bruno è una favola alla Blade Runner, un inferno napoletano. Nel mondo del Candelaio la legge non esiste, ma c’è la follia dei personaggi, ciascuno in cerca di qualcosa che non riuscirà mai ad ottenere. Contrapposto a essi c’è una gran ciurma di popolo che ha deciso di campare attraverso l’uso della delinquenza.

L.G.: La reazione è il disgusto definitivo per questa città? Protagonista, dunque, è l’illegalità?

T.R.: E la violenza. La follia della città. Napoli come New York e come tutte le grandi metropoli del mondo d’oggi. E la loro trasformazione nel finale in falsi sbirri, è un altro segno che avvicina quest’opera ai nostri tempi. Non accade forse lo stesso anche oggi?(…).

L.G.: Passiamo al linguaggio del Candelaio.

T.R.: Bruno getta anche nella lingua la propria violenza eversiva. Deforma la struttura toscana, allora imperante, con continui ricorsi ad aggettivi, barocchismi, frasi idiomatiche in dialetto napoletano. Io mi sono mosso in questo magma e da questo magma; ho ridotto il testo in italiano e poi l’ho riportato a quella che era la lingua che si parlava a Napoli nel Cinquecento.

(da il Mattino di Napoli, 18 ottobre 1991)

“IO DIRÒ… LA FALSITÀ!”

L’ennesima squallida storia!

Questa storia ha come protagonista un rappresentante del cosiddetto “mondo accademico”.

Il 29 agosto dello scorso anno al mio gruppo Facebook dedicato a Giordano Bruno si iscrive tal Germano Maifreda, il cui nome mi era noto per un saggio su Celestino da Verona. Lo accolgo facendogli notare di aver citato il suo lavoro in un mio articolo riguardante l’arresto e il processo a Bruno. Il Maifreda mi risponde dicendo di non averlo letto, al che gli fornisco il link per scaricarlo. http://www.guidodelgiudice.it/wp-content/uploads/2018/03/Arresto_GB.pdf

L’articolo.

Il mio articolo si basa sul libro da me pubblicato nel 2012 dal titolo “Io dirò la verità”, sottotitolo: “Intervista a Giordano Bruno”. Racconta in forma dialogica le vicende finali del processo. A questo punto il Maifreda non può non essere informato sia dell’articolo che dell’esistenza del mio libro. Dopo un mese esatto, il 29 settembre, il signor Maifreda annuncia sulla sua pagina facebook l’uscita del suo nuovo libro dal titolo “Io dirò la verità”, sottotitolo “Il processo a Giordano Bruno”!! Per giunta con una copertina che richiama nella scelta e nell’impostazione quella del mio. Complimenti per la fantasia!

Il gruppo Facebook.

L’iscrizione al gruppo era, dunque, stata fatta con l’evidente intento di sfruttare il canale per pubblicizzare l’uscita del volume. Operazione dal sapore provocatorio, poiché ben sapeva che un libro con lo stesso titolo e sullo stesso argomento era stato pubblicato, sei anni prima, proprio da me. Operazioni del genere non sono, purtroppo, una novità: il mio “Io dirò la verità” vanta più tentativi di imitazione della settimana enigmistica! Ci si aspetterebbe almeno, però, che uno che intitola un libro “Io dirò la verità” sfugga al paradosso di difenderlo ricorrendo a falsità. Falsità che sono state ovviamente cancellate dalla pagina Facebook. Ma, purtroppo per Maifreda, se una cosa non manca alla Rete è la memoria:

 

I commenti.

Ad una lettrice che gli fa notare l’evidente contraddizione, egli risponde così: “Al momento della stesura del mio libro non conoscevo (né ancora conosco) il libro del prof. Del Giudice. Ogni lettore potrà decidere se leggere il suo libro, il mio o entrambi, e li apprezzerà e giudicherà liberamente”. E ci mancherebbe pure! Aggiunge poi che “per fortuna in Italia esiste ancora la libertà di insegnamento e di ricerca universitaria”! Evidentemente egli ritiene che in questa libertà rientri anche il diritto di plagio! La legge sul diritto d’autore recita testualmente: “si può riprodurre il titolo di un’opera sopra un’altra senza il consenso dell’avente diritto (l’autore o il cessionario dei diritti) qualora esse siano di specie o carattere così diverse da risultare esclusa ogni possibilità di confusione” (art. 100 comma 3). Dovrebbe trattarsi cioè di un argomento inequivocabilmente diverso dall’altro e, decisamente, non mi sembra questo il caso.

L’editore Laterza.

Ancor più desolante è stata la risposta alle mie rimostranze dell’editore Laterza, che pure è un nome di prestigio nell’editoria filosofica, anche se non esente da logiche di controllo accademico. “Il titolo non è un’invenzione di fantasia (in questo caso ci saremmo ben guardati dall’utilizzarlo). Richiama invece – come Lei sa benissimo – le parole pronunciate dal filosofo Nolano agli inquisitori di Venezia all’inizio del processo.

Non è la prima volta che due volumi utilizzano una medesima celebre citazione. In questo caso, peraltro, il sottotitolo specifica la diversa natura dei due testi”. Ennesima falsità. Non è vero che i due testi siano di diversa natura. “Una nuova, avvincente e documentata ricostruzione” del processo al Nolano, come viene reclamizzata da Laterza, non può prescindere da quella da me fatta, nel 2012, proprio in “Io dirò la verità”. Ovviamente, però, non troverete traccia del mio nome nel libro di Maifreda, né in bibliografia né altrove. Invece, ovunque ricorre, con attestazioni di smodata piaggeria, il nome del deus ex machina di tutta questa operazione: il califfo di Palazzo Strozzi.

Il signor Maifreda.

Maifreda, prima d’ora, con Bruno non aveva mai avuto nulla a che fare. I suoi campi d’interesse erano l’economia e la storia dell’industria. Ha cominciato ad occuparsene con un saggio su Celestino da Verona, pubblicato, guarda caso, dalle Edizioni della Normale di Pisa, feudo di Michele Ciliberto. Maifreda non avrebbe mai potuto pubblicare il suo libro con Laterza senza l’assenso di Ciliberto. Un costume tutto italiano quello per cui gli editori, non essendo ovviamente conoscitori della materia, si affidano per le scelte editoriali al giudizio insindacabile dei docenti universitari della materia.

La Normale di Pisa.

Alla Normale, come alla Laterza, e in decine di altre case editrici non si pubblica nulla su Bruno senza il placet di costui. Lo sanno bene anche altri professori che, per esserselo fatto nemico, hanno dovuto ricostruirsi una carriera all’estero. Così, in Italia, ogni volta che si parla di Bruno, in libri, riviste, giornali, supplementi ai quotidiani, cd, dvd, documentari e programmi televisivi e chi più ne ha più ne metta, dobbiamo sorbirci il pistolotto sempre dello stesso personaggio. La sua tattica è ormai nota: appena si accorge dell’uscita di qualcosa di potenzialmente interessante su Bruno, attira l’ignaro con lusinghe e promesse e lo mette al proprio servizio, in cambio della protezione della casta.

Aquilecchia.

Ha fatto questo per decenni con le sue collaboratrici, che sono quelle che hanno realizzato il 90% delle opere da lui firmate, a parte il meridiano plagiato nel 2000 a Giovanni Aquilecchia e le decine di introduzioni. Non a caso, il suo “Teatro della vita” è una delle peggiori biografie bruniane mai scritte, zeppa di imprecisioni in quanto, pur validissimo nella interpretazione di alcune tematiche bruniane, il suo contributo personale di ricerca è stato pressoché nullo. La biografia è infatti impiantata su quanto riportato da altri, o fornito dalle sue assistenti, non sempre profonde conoscitrici delle vicende biografiche.

Quello di Maifreda è l’esempio perfetto di questo modo di interpretare la storiografia bruniana. Un’ipotesi per certi versi anche interessante, come io stesso ho riconosciuto, è stata incorporata in una rielaborazione di fantasia del processo a Bruno, composta assemblando informazioni estratte dai principali studi sull’argomento (compreso, naturalmente, il mio). Tutta questa vicenda non è altro che lo specchio del desolante panorama culturale italiano e del malcostume mafioso che imperversa nelle università.

Conclusioni.

Una degenerazione che vado denunciando da anni con dovizia di particolari (chi vuole può andare a leggersi le mie “mordacchie” precedenti), ma questi sono senza vergogna: “Che ci frega, siamo accademici noi, che vuole questo?!” Fortunatamente la fama e il rispetto che mi sono guadagnato con i miei studi su Giordano Bruno non sono dovuti a squallide manovre del genere, bensì al consenso ottenuto dal pubblico degli appassionati e degli studiosi grazie alle mie pubblicazioni e alla mia attività divulgativa.

Guido del Giudice

Guido del Giudice inaugura a Napoli l’ “Aiuola del libero pensiero”

“Inaugurata in pieno centro un’aiuola dedicata al filosofo Nolano”.

Il noto scrittore e filosofo Guido del Giudice ha annunciato oggi a Napoli la fondazione della The Giordano Bruno Society”. L’associazione intende promuovere, importanti iniziative in campo culturale e sociale. Per festeggiare la sua nascita, ha deciso di adottare uno spazio verde. Tale spazio è situato all’incrocio tra via Giordano Bruno e piazza Sannazaro.
Del Giudice, che ha finanziato personalmente insieme agli altri due soci fondatori, Pasquale Scarpati e Alberto Cinquegrana, il restauro e l’abbellimento dell’area, ha scoperto una targa in ricordo del filosofo che, nella Cena de le Ceneri, una delle sue opere più importanti, si definì “Napolitano, nato ed allevato sotto più benigno cielo”, a sottolineare il suo attaccamento alla città dove fu accolto giovanetto, per essere allevato ed istruito nel convento di S. Domenico Maggiore.
Guido ha idealmente restituito a Bruno quella cittadinanza napoletana, che fu costretto ad abbandonare nel 1576, per sfuggire alle persecuzioni dell’Inquisizione. L’ennesima, meritoria iniziativa di Guido del Giudice, apprezzato in campo internazionale come uno dei massimi esperti bruniani. Tale inziativa ha già raccolto unanimi consensi non soltanto da parte degli appassionati, ma anche dei semplici cittadini. Questi traggono con iniziative del genere un messaggio di fiducia e di incitamento a riscoprire i valori della loro cultura. Nel suo discorso, ha auspicato che l’“Aiuola del libero pensiero” diventi una piccola “Campo de’ fiori”. Un luogo simbolo, che possa costituire per scuole, istituzioni e associazioni culturali un momento di riflessione e uno stimolo a riscoprire l’ immenso patrimonio culturale della città.

“Editori e filologi, il caso Giordano Bruno è ancora aperto”

“La rivista «Belfagor» pubblica un intervento del direttore de Les Belles Lettres.

Che rilancia le accuse di Aquilecchia contro il Meridiano”

Alain-Philippe-Segonds
Alain-Philippe-Segonds

«Non è una guerra tra editori»: lo afferma Alain Segonds, direttore generale della casa editrice parigina Les Belles Lettres, sull’ultimo numero di Belfagor. D’accordo, non sarà stata solo una guerra tra editori, però un pochino lo è stata, non è vero? Questo non significa che non si tratti di una «guerra giusta». Sto parlando della querelle divampata alcuni mesi fa, dopo la pubblicazione dei Dialoghi filosofici italiani di Giordano Bruno nella collana mondadoriana «I Meridiani», a cura di Michele Ciliberto. Il Corriere se n’è occupato a più riprese.

Giovanni Aquilecchia.

Però le ostilità non accennano a placarsi. Dopo l’articolo di Segonds, altri interventi sono annunciati: uno di Giovanni Aquilecchia sul Giornale storico della letteratura italiana e uno di Michele Ciliberto sulla Rivista di storia della filosofia. Oggetto del contendere: le modalità con cui è stata utilizzata, nel Meridiano, l’edizione critica dei Dialoghi messa a punto da Aquilecchia per Les Belles Lettres, che hanno in corso la pubblicazione delle Oeuvres complètes di Giordano Bruno. Nel volume mondadoriano, quell’edizione è indicata come «testo di riferimento»: locuzione abbastanza vaga e pudica; e seguita da quest’aggiunta: «Tutti i testi sono stati riscontrati in modo sistematico con le prime stampe, ed emendati da refusi e imperfezioni che, in alcuni casi, ne compromettevano il senso».

La “Nota sui testi”.

Insomma, la «Nota sui testi», che Segonds definisce offensiva, suggerisce che il testo de Les Belles Lettres è stato solo una «base di partenza per approdare poi a un testo privo di refusi e imperfezioni, e quindi migliore di quello di Aquilecchia». Operazione legittima, anche se fastidiosa per un editore come Les Belles Lettres, che in questi anni sulle Oeuvres complètes di Bruno ha puntato molto; se non fosse che la nozione fumosa di «testo di riferimento» è servita a Ciliberto per aggirare quella che è la prassi sana e normale: riprodurre un testo critico, indicando tutti i punti in cui lo si corregge e spiegando perché. Questo nel volume mondadoriano non c’è e Segonds ha ragione di sottolinearlo.

Quanto ad Aquilecchia, dichiara di avere confrontato i due testi. Ha trovato «130 interventi erronei o inopportuni, a fronte di una trentina di correzioni di banali refusi». Dichiarazione che lascia perplessi: giacché 130 interventi peggiorativi sono tantissimi, ma anche 30 refusi in un’edizione critica non sono comunque pochi.

Scontro tra filologi.

Insomma, da un lato c’è uno scontro tra filologi – uomini spesso implacabili perché si attengono, per mestiere e vocazione, alla lettera (l’ostinazione con cui Segonds e gli altri del partito Aquilecchia-Les Belles Lettres scrivono, senza mai dimenticare le virgolette, che il Meridiano è «a cura» di Ciliberto, fa pensare a: il corsivo è mio di Lenin); e dall’altro c’è lo scontro tra un editore accademico, o vicino all’Accademia, come Les Belles Lettres e un grande editore popolare come Mondadori. Si tratta di realtà che hanno obiettivi, logiche e soprattutto tempi diversi.

Il Meridiano.

Fra i molti faux pas di questa guerra spietata vorrei citare una dichiarazione di Ciliberto: «Queste polemiche le posso capire solo se tengo presente che il Meridiano ha già tirato due edizioni e venduto cinquemila copie, tagliando le gambe a Les Belles Lettres». Questo entusiasmo da novizio può non piacere, in un accademico. E tuttavia, scegliere un partito è difficile. Facendo il bilancio dei pro e dei contro, non bisogna dimenticare che l’editoria di massa ci offre, a prezzi accessibili, molte edizioni di classici, perfettamente soddisfacenti per noi specialisti in niente, e spesso utili anche agli specialisti.

a cura di GIOVANNI MARIOTTI

“Giordano Bruno e il giallo dell’ edizione critica”

L’ edizione critica.

In un mondo dove tutto, anche la scuola, è divenuto mercato, non c’è da stupirsi che studiosi e professori universitari non avvertano l’elementare regola morale di riconoscere che ciò che è di un altro non è proprio.

Alludo al caso del testo critico delle opere di Giordano Bruno stabilito da Giovanni Aquilecchia per le benemerite Belles Lettres. Successivamente è stato riproposto da Michele Ciliberto nella sua recentissima edizione nei «Meridiani» di Mondadori. Non si è avuta una una chiara e rispettosa ammissione di ciò, appunto, che ad altri era dovuto.

La querelle.

Dai giornali la querelle è ora passata sulle riviste specializzate e nell’ultimo numero di Belfagor (31 luglio 2000) è sceso in campo lo stesso Alain Segonds, noto studioso oltre che direttore generale de Les Belles Lettres (Aquilecchia interverrà quindi sul Giornale storico della letteratura italiana e Ciliberto sulla Rivista di storia della filosofia). Ma non di questo intendo qui parlare.

Giovanni Mariotti.

Giordano Bruno Ugo DottiDopo lo scritto di Segonds, Giovanni Mariotti, sul Corriere della sera, ha cercato di bilanciare i pro e i contra dei due contendenti e ha tentato, salomonicamente, di emettere una sentenza equilibrata: da un lato avresti un editore «accademico» (Les Belles Lettres) che fa della qualità il proprio fiore all’occhiello; dall’altro, com’egli si esprime, “un grande editore popolare quale la Mondadori» che ha obiettivi e logiche diverse, vale a dire, se ben intendo, vendere e incassare.

Tant’è che, come ha affermato Ciliberto, il suo Giordano Bruno avrebbe «tagliato le gambe» all’avversario avendo già tirato due edizioni e venduto cinquemila copie.
Questo registro del dare e dell’avere connesso col furto (giuridicamente legittimo) dell’edizione critica di un’opera così difficile e problematica come quella di Giordano Bruno, lascia davvero sconcertati.

Esso infatti solleva, come dicevamo all’inizio e come ha icasticamente precisato Alain Segonds nel suo intervento su Belfagor, una sola questione; e tale questione è essenzialmente di natura morale. Chi ha speso gran parte della propria attività di studioso per restaurare un testo significativo della cultura del passato o anche soltanto chi abbia letto, in proposito, Petrarca o Poggio Bracciolini, Lorenzo Valla o Poliziano, conosce bene il piacere disinteressato che proviene da questo esercizio, insieme, di filologia e di disciplina morale. Ma lasciamo pure perdere siffatte considerazioni.

Non possiamo però trascurare almeno due circostanze. Che di siffatti studiosi si va sempre più perdendo la razza. Ed in secondo luogo, che di editori disposti a favorire il merito e la qualità se ne trovano sempre meno.

Ora, a quanto pare, Les Belles Lettres debbono pure subire lo sbeffeggio delle cinquemila copie vendute dall’editore «popolare» italiano. Tra la vanagloria e la gloria – sentenziava Agostino – c’è questa differenza: la prima poggia sull’effimero giudizio degli uomini; la seconda sul profondo consenso della coscienza.

UGO DOTTI

“Elogio della filologia, contro i pedanti e gli incompetenti”

“Da Giordano Bruno agli articoli di giornale: non è vero che risalire alle fonti sia uno svago per iniziati”

Un titolo del Corriere del 13 agosto («Leggete Giordano Bruno. E lasciate perdere la filologia») mi induce a riflettere su un luogo comune. La «filologia» come pedanteria, come lussuoso svago per iniziati (è l’analogo dell’altro pregiudizio, secondo cui la «filosofia» sarebbe a sua volta la palestra per le superflue astruserie di alcuni «diversi»).

Ma torniamo alla filologia. Caricata di significati in fondo negativi ed iniziatici, questa parola suscita impressioni sgradevoli nel cosiddetto «senso comune». E tale maniera di parlarne non solo la rende odiosa e sconosciuta insieme, ma costituisce l’alibi per la gioviale difesa della cialtroneria. Vorrei dedicare perciò qualche riga all’elogio della «filologia».

Strumento senza il quale neanche la lettura del giornale quotidiano diviene operazione consapevole. Comprendere, ad esempio, secondo quale criterio un articolo che comincia in prima si spezza e séguita in pagine interne (e non certo in una pagina qualunque, scelta a caso). Comprendere perché i titoli non corrispondono necessariamente al contenuto degli articoli in cima ai quali figurano. Perché talvolta li «smorzino» e talaltra li esaltino, distinguere quando la notizia viene data da un vero cronista «militante» (che va sul posto) e quando invece è rielaborazione di agenzie comodamente apparse sui monitor (e dunque già «fabbricate»): tutto questo non è operazione filologica? Lo è, ed è anche chiave indispensabile per la più pratica, la meno separata, la meno esclusiva delle azioni quotidiane: la lettura del giornale.

Girolamo Vitelli
Girolamo Vitelli – Filologo.

Scrisse una volta Girolamo Vitelli che si dà «filologia» anche da parte del matematico di fronte ai suoi simboli, o del chimico di fronte alle sue formule. Ed è spesso inosservata, proprio perché sotto gli occhi di tutti, la filologia in forza della quale un’orchestra lavora ed esegue il suo compito in rigorosa sintonia e sotto puntuale direzione.

Il senso comune, pur con le sue brutture, ha una grande forza: quella di imprimere concetti e pseudo-concetti nella mente di masse enormi di persone e per un tempo lunghissimo.

Adottiamo allora il linguaggio che può far breccia nel senso comune e diciamo che l’anti-filologia è sinonimo di incompetenza.

LUCIANO CANFORA

“Un autore da affrontare con cautela”

mondadorieditore

A proposito della discussione…

…che si è sviluppata sul Meridiano dedicato a Giordano Bruno, e in particolare dell’intervento di Alain Segonds (Corriere 10 agosto), desidero precisare quanto segue: né il professor Michele Ciliberto né la Mondadori hanno mai inteso «assorbire» il lavoro del professor Giovanni Aquilecchia né tantomeno «mancargli di riguardo» sottovalutando o «oscurando» il suo lavoro di autore del testo critico di Bruno.

Al contrario, io stessa mi sono rivolta ad Aquilecchia per avere il consenso a che il suo nome figurasse sul frontespizio quale autore del testo critico accanto a quello del curatore.

Ci tengo a sottolineare che la novità del volume, come per molti della collana, consiste soprattutto nella ricchissima curatela che accompagna i testi. In particolare, essendo i testi di Bruno assai ardui, difficilmente un lettore non specialista potrebbe capirne la bellezza e l’importanza senza puntuali spiegazioni linguistiche, inquadramento filosofico, informazioni storiche, aggiornamenti bibliografici.

Tutto questo abbiamo cercato di fornire nel Meridiano con i suoi apparati di circa ottocento pagine.

Tuttavia, avendo il professor Aquilecchia rifiutato la soluzione propostagli (che lo avrebbe accostato, quale autore del testo critico, a Ciliberto, curatore del Meridiano), abbiamo riconosciuto l’alto valore del suo lavoro nel luogo più solenne dopo il frontespizio, cioè la Nota sui testi.

RENATA COLORNI

“Leggete Giordano Bruno. E lasciate perdere la filologia”

“Il curatore del Meridiano e la direttrice della collana replicano all’editore francese del testo critico: l’obiettivo del volume era quello di far conoscere ai lettori comuni il pensiero di un filosofo poco noto”.

Ho letto con interesse l’intervento che ha fatto Giovanni Mariotti (Corriere 8 agosto) ponendo giustamente, a proposito del Meridiano di Giordano Bruno, il problema del rapporto tra «editoria di massa» ed «editoria accademica».

Non è detto che l’«editoria di massa» sia sempre di livello più basso e che l’«editoria accademica» sia sempre di livello più alto.

La differenza tra una «edizione di massa» e una «edizione accademica»

non riguarda la qualità scientifica del lavoro, ma i differenti «strumenti» che si decide di usare. Ciò che infatti è indispensabile in un’«editoria accademica», non è necessario in un’«editoria di massa», e viceversa.

È una distinzione assai utile per capire caratteri e finalità del Meridiano dedicato a Bruno. Nel nostro caso ci è parso necessario corredare il volume di un commento di cinquecento pagine, di una ricca cronologia della vita e delle opere; una nota bibliografica; di un indice-lessico di quasi cento pagine; un’amplissima introduzione che fa il punto attuale sugli studi su Bruno, presentando un’immagine complessiva della sua filosofia.

Sulla base di un lavoro più che trentennale,

abbiamo, cioè ritenuto indispensabile corredare il volume di tutti gli strumenti scientifici necessari per consentire la più larga diffusione nel nostro Paese del pensiero di Bruno, in occasione di un evento eccezionale come il quarto centenario della sua morte sul rogo, in Campo dei Fiori.

Proprio per questo non ci è, invece, parso opportuno pubblicare, in questa sede, una tavola degli interventi che abbiamo fatto (specialmente sul testo dei Furori). E ciò anche per un altro motivo: per gli obiettivi che ci siamo volutamente dati, noi non abbiamo avuto l’ambizione di presentare una nuova edizione dei dialoghi di Bruno, come ha inteso fare, per esempio, Santagata per Petrarca il quale ha perciò pubblicato una «tavola delle modifiche» da lui apportate al testo di Contini.

Michele_CilibertoPer quanto riguarda il testo di Bruno, non abbiamo dunque inteso «assorbire» o «oscurare» alcunché: al contrario, fin dal primo momento, nella mia responsabilità di curatore, mi sono preoccupato di segnalare all’editore l’opportunità di utilizzare il testo critico di Aquilecchia che, nella nota sui testi, ho citato esplicitamente come «testo di riferimento», termine normalmente usato (anche nel Meridiano petrarchesco, ed è per questo, ovviamente, che su il manifesto l’avevo citato), senza suscitare, fino ad ora, critiche di alcun genere.

Ciò, naturalmente, non mi ha impedito di fare, nel caso specifico dei Furori, quegli interventi necessari, per vari ordini di motivi. Mi sia consentito però chiudere con un’osservazione di ordine generale. Dopo mesi di insulti e di insolenze di ogni genere, l’unico addebito che mi si continua ad imputare è l’assenza della «lista delle modifiche».

Se si fosse discusso del merito del Meridiano – del contributo filosofico che esso fornisce alla conoscenza di Bruno e alla messa a fuoco di cosa oggi significhi leggere i suoi testi – forse avremmo tutti impiegato assai meglio il nostro tempo …

MICHELE CILIBERTO